lunedì 18 agosto 2014

Le catene del mito



In tempi di peplum revival, lo scontro fra titani della stagione è quello che ha visto collidere a pochi mesi di distanza Hercules – La leggenda ha inizio di Renny Harlin (uscito in gennaio), protagonista Kellan Lutz,  e Hercules – Il guerriero di Brett Ratner con Dwayne Johnson (in sala dal 13 agosto). Altri due prodotti dell’intrattenimento mainstream ascrivibili a un processo di revisionismo smitizzante (si pensi alla recente invasione di rivisitazioni fiabesce, da Biancaneve fino a Maleficent), stavolta incentrato sul celeberrimo forzuto della mitologia greco-romana. Da Harlin a Ratner, l’assunto di base sembra partire da una rilettura dal basso, terrena, precariamente umanizzata dello status ontologico del semidio Hercules. Il mito scalfibile, mortale e attualizzato come il corpo dell’eroe. Suscettibile di  una messa alla prova, un’ideale fatica aggiuntiva da portare a termine per attestarne la valenza simbolica (il ritorno dall’esilio e la lotta contro il re Anfitrione nel primo caso, la battaglia contro il sovrano dei Traci Cotys nel secondo). Trattamento ed esiti delle due opere prendono però due strade diverse. 

Harlin, tentando più una conferma che una riscrittura della leggenda (imposta fin dal titolo), in sintonia con l’action-adventure contemporaneo sceglie la formula dell’imitazione esibita. C’è una scena chiave dove Hercules sfida Anfitrione in duello pronunciando le identiche parole usate dal re nel prologo. «Imitazione, la più nobile forma di adulazione» risponde Anfitrione. Il déjà vù esplicita il senso dell’operazione di Harlin: la forma filmica che ne imita pedestremente un’altra, senza nascondersi, anzi dichiarandolo. Hercules – La leggenda ha inizio come clone spurio, figlio (il)legittimo de Il gladiatore (2000), in un prodotto che, come il suo protagonista, rivendica la paternità di modelli esterni ad ogni sequenza (Il gladiatore, come detto, ma anche l’estetica al ralenty di 300 e del serial Spartacus). Nulla di male. Soltanto che l’imitazione non si traduce mai in ibridazione che produce qualcosa di nuovo. E in definitiva finisce per smorzare il conflitto vulnerabilità umana-indistruttibilità divina. Hercules come ennesima variazione dello schiavo-legionario tradito in cerca di vendetta e giustizia nell'arena.


Non aiutano a riscattare il film evidenti richiami cristologici: l’annunciazione a Maria-Alcmena, Hercules prima ripudiato poi salvatore riconosciuto dal popolo, fustigato e “inchiodato” alle catene rivolto al Dio-padre («Io credo in te»). Proprio quest’ultima scena stabilisce un ulteriore scarto con il film di Ratner. Se per Harlin Hercules si libera invocando il padre, riconoscendo finalmente la discendenza divina in uno sguardo gettato al cielo, l’Hercules di Dwayne Johnson spezza la catene scegliendo di credere solo a se stesso. A una forza costitutiva quanto insondabile, incoraggiato da chi ugualmente crede in lui (Anfiarao e i mercenari) senza avere certezze del suo stato immortale. «Io sono Hercules»... e basta, verrebbe da dire. Non a caso nel film di Harlin, dopo l’indecidibilità iniziale, fanno capolino segni della scintilla divina (l’aquila dorata, i fulmini di Zeus sulla spada dell'eroe) completamente assenti in Hercules – Il guerriero. Qui, mai uno sguardo dall’alto a sorvegliare, nemmeno gli occhi evanescenti di Era (muta statua di pietra) onnipresenti nel kitsch in salsa medievale dell’Hercules Tv con Kevin Sorbo.  

La leggenda ha inizio spezza solo apparentemente le rigide catene del mito, preoccupandosi presto di riagganciarle, imprigionandolo in uno schema tradizionale. E Hercules il guerriero a lasciarlo libero di (s)fuggire a un senso compiuto e definitivo. Indovinando l’idea di esplorare il dualismo del personaggio con leggerezza beffarda e divertita, talora cafona ma mai disonesta. Snaturandolo senza forzare i toni. Scegliendo di mantenerne l’ambiguità sulle origini fino in fondo, senza risolverla affatto, in un processo di ri-narrazione continua e slittamenti di prospettiva del racconto (il passaggio di consegne tra Iolao e Anfiarao dall’incipit al finale). 

Ed è qui che il film di Ratner, pur in un impianto convenzionale, si mostra maggiormente riuscito. Nel presentare una riduzione in senso letterale, un mito in sottrazione, dosato, spartito e condiviso (la compagnia di mercenari). Un eroe orfano di una leggenda che chiede invano di essere verificata. Ma non serve accertare la leggenda (come nel film di Harlin). Basta quel tanto di verità dietro il mito. Umanissima odissea coi piedi piantati per terra (come le falangi istruite da Hercules). Di sangue, muscoli e denaro, carne pompata in bella vista e lacerazioni occultate, ma anche di lealtà, onore e compassione. Grazie soprattutto ai volti azzeccati per i comprimari (Hurt, Sewell, McShane) e a un Dwayne Johnson che definire introspettivo sarebbe inappropriato, ma che dopo qualche prova più sfumata (The Snitch, 2013, Pain & Gain, 2013) attenua la reputazione di colosso dalla recitazione d’argilla, strizzando l’occhio con (auto)ironia senza alzare borioso il sopracciglio.



Questo mito disinvolto e inconsapevole non è thesaurus di imprese celebrative da catalogare per forza, narrazione da sostanziare riannodando tracce esibite del divino in un’epica da bazaar ambulante, come fa il cantore Iolao imbonendo su scudi, elmi e corazze di Hercules. Ma diventa puro McGuffin per la destrutturazione dell’eroe e del bestiario mitologico di riferimento, che rilegge le false ombre dei centauri e di Cerbero in chiave psicanalitica, come paure collettive e traumi individuali innestati in un immaginario consolidato. Dove anche le dodici fatiche, rimandate ai titoli di coda, sono poca cosa dinnanzi al rimosso di Hercules, peraltro sbrigato grossolanamente. 

Il merito del film di Ratner, lo spiega Autolico, sta proprio nel non raccontare tutto, omettendo dettagli, limando la grandeur. Altrimenti la battaglia non comincia. Nemici e spettatori battono spaventati in ritirata. La narrazione si spegne in partenza. In fondo, come illustra il finale aperto, anche chi si appresta a tramandare il mito dovrebbe essere morto.  

venerdì 8 agosto 2014

Primati digitali



Cos'hanno in comune Autobot e scimpanzé, il capobranco Cesare e Optimus Prime? In verità, più di quanto non si possa a prima vista sospettare. Nel deserto ad aria condizionata che diventa la multisala estiva, Transformers 4 – L’era dell’estinzione di Michael Bay ed Apes Revolution - Il pianeta delle scimmie di Matt Reeves, oltre a contendersi incontrastati il botteghino, si incaricano di fare il punto su statuto e resistenza del concetto di umano in uno scenario insediato da elementi ugualmente pre e post-umani, come in effetti sono sia i Transformers che le scimmie antropomorfe. Entrambi, come illustrato dalle rispettive cine-genealogie, colonizzarono il pianeta prima dell’uomo e ritornano ora per decretarne il suo superamento, tutt’altro che pacifico. Ma c’è di più. Oltre l'esile dimensione narrativa, i due blockbuster trattano la questione del post-umano rappresentando la gestione delle risorse artificiali e dell’arsenale tecnologico contemporaneo, innanzitutto mezzi e modalità del cinema, armi potenti ma pericolose se poste nelle mani sbagliate (tema centrale delle due opere). 




Transformers 4 ed Apes Revolution, uniti nella preminenza accordata al digitale, sono in realtà animati da due ideologie diverse, filtrate proprio nel diverso impiego della tecnica. Il digitale iconoclasta di Bay è amplificato a dismisura per allontanarsi il più possibile da una concezione antropocentrica dell’immagine, della messa in scena (del cinema stesso) e, parallelamente, da un’impostazione centrifuga della messa in movimento. L’immagine si rincorre, schizza, libra e si schianta sullo schermo come un fuoco artificiale, sganciata dall’ancoraggio a una qualsiasi identificazione partecipante, retaggio di un cinema di icone di ferro (il John Wayne di El Dorado nella sala disfatta) scomparso nel frastornante ma sordo rimbombo metallico dei giocattoloni Hasbro.

Apes Revolution  si muove in direzione opposta. Verso una prospettiva di assimilazione, di avvicinamento mimetico alla patemica umana dietro la fisiognomica digitale (le movenze in motion e la micromimica in performance capture  di Andy Serkis/Cesare e relativo branco), spingendo verso la completa identificazione emotiva con le creature, rafforzata anche dalla decisa virata verso una dimensione familistica e filiale. Per questo le inquadrature privilegiano format del cinema classico, con i puntuali campi/controcampi nei dialoghi tra scimpanzé e gli intensi e insistiti primi piani su Cesare e compagni. 

Anche nella concitazione delle sequenze di battaglia c’è un punto in cui la camera sceglie di restare agganciata a un punto di vista tipicamente umano: la breve semi-soggettiva dal carro armato su cui troneggia lo scimpanzé ribelle Koba, che dura abbastanza per divenire significante. Toccata e fuga dell'altrimenti anonimo Reeves regista di Cloverfield, che con questo brevissimo P.O.V. dal centro del caos si cita e al tempo stesso si sconfessa. Lo sguardo frammentato e parziale, traballante eppure fermo della camera monoculare si fa ambiguo testimone dell’umano filtrato attraverso gli occhi della scimmia (o è il contrario?). Sguardo compenetrato che diventa doppio, liquido e indistinguibile anche negli zoom all’indietro (incipit) e in avanti (finale) verso le pupille di Cesare, che hanno il riflesso sinistro di quelle del generale Thade del Planet of the Apes di Burton.


A Michael Bay non interessano nemmeno incroci e sovrapposizioni di sguardo. Più che su un post-umano, riflette su un cinema non (più) umano che prospetta da sé la propria riparazione/sostituzione nell’alveo della ricostruzione in CGI. Le cui potenzialità si avvertono e si vogliono illimitate, eccessive, assolute, non addomesticate, ed è la ragion d’essere di un cinema provocatoriamente e consapevolmente smisurato fino all’esagerazione. Il primato del digitale che non ha bisogno di null’altro che per (ri)prodursi e (ri)produrre cinema. 

Apes Revolution è ancora all’opposto, ma in modo ambiguo e decisamente sottile. Da un lato resta fedele a una dimensione umanista del cinema, a partire dai corpi attoriali in tuta che prestano emozioni e fisicità ai primati digitali. Dall’altro la mette radicalmente in crisi, svelando la congenita debolezza dell'uomo e il suo possibile tramonto nella dipendenza vitale dalle risorse artificiali. Le scimmie sembrano destinate all’evoluzione proprio perché non sperimentano la dimensione tutta umana del bisogno e della mancanza (di luce, energia, riscaldamento).  Non fosse per la performance di Andy Serkis, finirebbero per (ri)prodursi da sole, come Transformers qualunque sul green screen. Tra l’era dell’estinzione e l’alba di nuove specie, quale cinema prenderà il sopravvento sul pianeta blockbuster è ancora impossibile dirlo con certezza. La guerra, comunque, è stata dichiarata.