mercoledì 30 ottobre 2013

La stagione dei Grandi (ritorni)



IL GRANDE GATSBY (The Great Gatsby, 2013) di Baz Luhrmann



Le scorrerie sfrenate della jazz age fitzgeraldiana, ne Il Grande Gatsby di Baz Luhrmann diventano racconti dell’età del rap. Con le rime di Jay-Z, il montaggio sbalzante e sincopato. Le folli corse in auto. Le vertigini visive della m.d.p. sui grattacieli della City e in volo sulle tenute principesche di Long Island. 
Una scatenata orgia visiva. Cine-festa mobile di sonorità synth-pop e immagini sgargianti fino al parossismo caro al regista. Sbornia alcolica da stordire i più rigorosi puristi del romanzo, anche peggio dei coloratissimi fluo-drink serviti a casa Gatsby. 
Gli spettatori-letterati imbucati allo sfavillante allestimento scenico come gli ospiti ai party di Gatsby. Entrambi rapiti dal pomposo sfarzo della confezione. A guardarsi intorno, cercando tracce del saccheggio del romanzo (i primi). O della corruzione di un’identità indecifrabile (i secondi). Il cui segreto non nasconde nulla di meschino. Solo incorruttibile purezza e fedeltà incrollabile a una lucida illusione, meticolosamente coltivata. Vitale e tragica ossessione a cui Luhrmann dà via via maggior respiro (la delicatezza poetica nell’incontro di Gatsby e Daisy). 
Restituendo la vena malinconica sul tramonto di un’era. La vacuità e il disfacimento della società americana descritti nel testo d’origine. Naturalmente filtrato attraverso lo sguardo lunare e stupefatto del Nick Carraway di Tobey Maguire. Osservatore distaccato e abbagliato testimone “oculare”. Dentro e fuori dal racconto al tempo stesso. Anche visivamente. Quando dall’interno dell’hotel rimira se stesso all’angolo della strada. Incrociando nel suo doppelgganger lo sguardo dello “spettatore casuale” intento a contemplare la “parte di segreto umano” sprigionata dalle finestre illuminate. Non più solo voce narrante. Ma viva incarnazione del “grande romanzo americano” (così lo apostrofa Tom Buchanan). Vero creatore della storia battuta a macchina. Di cui si appropria apponendoci la firma. Suggellando il titolo del manoscritto (“Gatsby”) con quelle due parole aggiunte a mano (“The Great”). Vergando la pagina filmica con i passi del romanzo a scorrere fugaci sullo schermo, prima di sbriciolarsi come cenere. 
La scrittura come riattivazione del ricordo e prezioso recupero della memoria. Unico rimedio al pericoloso riaffacciarsi di antichi demoni. E’ la cura prescritta dallo psichiatra allo smorto Nick Carraway in treatment, recluso in clinica, depresso e alcolizzato (invenzione assente nel romanzo). Luhrmann, con una personalissima ri(scrittura) del classico, si affida a questo personaggio per esorcizzare gli incubi post-Grande depressione che, tristemente, sono gli stessi di oggi: la crisi deflagrante e l’esplosione della bolla finanziaria. Il degrado umano e morale, la solitudine dell’individuo. 
Alla ricerca dell’unica catarsi possibile, quella offerta dalla vivacità rilucente del prodotto artistico. Almeno al cinema, illusione plausibile e realizzata (?), al contrario di quella di Gatsby, c’è speranza di tornare a ruggire.


LA GRANDE BELLEZZA (2013) di Paolo Sorrentino


“A 65 anni, non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare” è il mantra di Jep Gambardella. Paolo Sorrentino non ci ha mai nemmeno provato a compromettersi con storie in cui non credesse fermamente. Con La grande bellezza conferma l’originalità di uno sguardo/squarcio sul visibile che evade la dicotomia visivo/narrativo. 
Basterebbe l’incipit. L’abbraccio volante su luoghi e figure di Roma non in montaggio descrittivo, alla Woody Allen. Al massimo "decrittativo". Posato su qualcosa per decifrare vissuti e contraddizioni della Città Eterna. Il placido silenzio marmoreo di statue e palazzoni. L’armonioso canto lirico e le becere imprecazioni di un autista. Lo spiegone routinario della guida e frotte di turisti orientali. Uno si defila dal gruppo, colpito da uno scorcio inatteso nel panorama. Una rivelazione improvvisa. La grande bellezza che lo folgora per un attimo e subito gli è fatale, inafferrabile e irraccontabile come il nulla eterno in cui sguazzano i personaggi. 
Poi, l’urlo di una donna sparato in faccia allo spettatore, ed eccoci dentro il rumoroso cicaleggio notturno della mondanità. Lassù, nel cielo artificiale di questa funerea e carnascialesca Roma da bere, il titolo del film campeggia in aria come uno spotlight. La festa comincia, tutti salgono in carrozza. L’anfitrione Jep, consumato viveur alla ricerca del tempo perduto, vistoso dandy dall’incorreggibile parlata cadenzata. Centometrista della vita che in un lampo velocissimo ha bruciato fama, amicizie e amori. Uno scatto fulminante, poi più nulla. Sdraiato a tirare il fiatone in terrazza, tra una boccata di fumo e l’altra. (“Perché non hai più scritto?”. “Sono uscito troppo la sera”). Il drammaturgo alla ricerca di versi e piacere dannunziani (Verdone), ostinatamente votato a una musa cialtrona che neanche lo calcola. L’ex soubrette televisiva oversize e cocainomane. 
Ricchi di professione, scrittrici-portaborse sinistrate, aristocratiche radical chic. Nobili a noleggio e anziane principesse annoiate al tavolo delle carte. Tronfi collezionisti di opere kitsch e pacchianerie di pseudo-artisti da salotto. Arte povera e umanità poverissima. Prelati che sorseggiano champagne in ristoranti alla moda e giovani novizie in coda per un’iniezione di botolino. Il pedante e sussiegoso cardinal Bellucci (Herlitzka), appassionato di culinaria geloso di attenzioni, che dispensa ricette invece di concedere udienza spirituale. 
Tutti ugualmente disperati, cui non resta che farsi compagnia e prendersi un po’ in giro, prima che cali il sipario sullo “squallore disgraziato e l'uomo miserabile”. Sorrentino scalfisce, profana la sacralità dell’icona (religiosa, cinematografica) dissacrando con levità, senza cattiverie, rabbia indignata né compiacimento. Soltanto rapito, curioso, amareggiato dalla varietà di quest’umanità stanca, sfibrata e sudaticcia che scimmiotta trenini “belli perché non vanno da nessuna parte”.