IL GRANDE GATSBY (The Great Gatsby, 2013) di Baz Luhrmann
Le scorrerie sfrenate della jazz age fitzgeraldiana, ne Il Grande Gatsby di Baz Luhrmann
diventano racconti dell’età del rap. Con le rime di Jay-Z, il
montaggio sbalzante e sincopato. Le folli corse in auto. Le vertigini visive
della m.d.p. sui grattacieli della City e in volo sulle tenute principesche di
Long Island.
Una scatenata orgia visiva. Cine-festa
mobile di sonorità synth-pop e immagini sgargianti fino al parossismo
caro al regista. Sbornia alcolica da stordire i più rigorosi puristi del
romanzo, anche peggio dei coloratissimi fluo-drink serviti a casa Gatsby.
Gli spettatori-letterati imbucati allo
sfavillante allestimento scenico come gli ospiti ai party di Gatsby. Entrambi
rapiti dal pomposo sfarzo della confezione. A guardarsi intorno, cercando
tracce del saccheggio del romanzo (i primi). O della corruzione di un’identità
indecifrabile (i secondi). Il cui segreto non nasconde nulla di
meschino. Solo incorruttibile purezza e fedeltà incrollabile a una lucida
illusione, meticolosamente coltivata. Vitale e tragica ossessione a cui
Luhrmann dà via via maggior respiro (la delicatezza poetica nell’incontro di
Gatsby e Daisy).
Restituendo la vena malinconica sul
tramonto di un’era. La vacuità e il disfacimento della società americana
descritti nel testo d’origine. Naturalmente filtrato attraverso lo sguardo
lunare e stupefatto del Nick Carraway di Tobey Maguire. Osservatore distaccato
e abbagliato testimone “oculare”. Dentro e fuori dal racconto al tempo stesso.
Anche visivamente. Quando dall’interno dell’hotel rimira se stesso all’angolo
della strada. Incrociando nel suo doppelgganger
lo sguardo dello “spettatore casuale” intento a contemplare la “parte di
segreto umano” sprigionata dalle finestre illuminate. Non più solo voce narrante. Ma viva incarnazione del
“grande romanzo americano” (così lo apostrofa Tom Buchanan). Vero creatore
della storia battuta a macchina. Di cui si appropria apponendoci la firma.
Suggellando il titolo del manoscritto (“Gatsby”) con quelle due parole aggiunte
a mano (“The Great”). Vergando la pagina filmica con i passi del romanzo a
scorrere fugaci sullo schermo, prima di sbriciolarsi come cenere.
La scrittura come riattivazione del
ricordo e prezioso recupero della memoria. Unico rimedio al pericoloso
riaffacciarsi di antichi demoni. E’ la cura prescritta dallo psichiatra allo
smorto Nick Carraway in
treatment, recluso in clinica, depresso e alcolizzato (invenzione
assente nel romanzo). Luhrmann, con una personalissima ri(scrittura) del
classico, si affida a questo personaggio per esorcizzare gli incubi post-Grande
depressione che, tristemente, sono gli stessi di oggi: la crisi
deflagrante e l’esplosione della bolla finanziaria. Il degrado umano e morale,
la solitudine dell’individuo.
Alla ricerca dell’unica catarsi
possibile, quella offerta dalla vivacità rilucente del prodotto artistico.
Almeno al cinema, illusione plausibile e realizzata (?), al contrario di quella
di Gatsby, c’è speranza di tornare a ruggire.
LA
GRANDE BELLEZZA (2013) di Paolo Sorrentino
“A 65 anni, non posso più perdere tempo a
fare cose che non mi va di fare” è il mantra di Jep Gambardella.
Paolo Sorrentino non ci ha mai nemmeno provato a compromettersi con storie in
cui non credesse fermamente. Con La
grande bellezza conferma l’originalità di uno sguardo/squarcio sul visibile
che evade la dicotomia visivo/narrativo.
Basterebbe l’incipit. L’abbraccio volante
su luoghi e figure di Roma non in montaggio descrittivo, alla Woody Allen. Al
massimo "decrittativo". Posato su qualcosa per
decifrare vissuti e contraddizioni della Città Eterna. Il placido silenzio
marmoreo di statue e palazzoni. L’armonioso canto lirico e le becere imprecazioni
di un autista. Lo spiegone routinario della guida e frotte di turisti
orientali. Uno si defila dal gruppo, colpito da uno scorcio inatteso nel
panorama. Una rivelazione improvvisa. La grande bellezza che lo folgora per un
attimo e subito gli è fatale, inafferrabile e irraccontabile come il nulla
eterno in cui sguazzano i personaggi.
Poi, l’urlo di una donna sparato in
faccia allo spettatore, ed eccoci dentro il rumoroso cicaleggio notturno della
mondanità. Lassù, nel cielo artificiale di questa funerea e carnascialesca Roma
da bere, il titolo del film campeggia in aria come uno spotlight. La festa comincia, tutti salgono in carrozza.
L’anfitrione Jep, consumato viveur alla
ricerca del tempo perduto, vistoso dandy
dall’incorreggibile parlata cadenzata. Centometrista della vita
che in un lampo velocissimo ha bruciato fama, amicizie e amori. Uno scatto
fulminante, poi più nulla. Sdraiato a tirare il fiatone in terrazza, tra una
boccata di fumo e l’altra. (“Perché non hai più scritto?”. “Sono uscito troppo la
sera”). Il drammaturgo alla ricerca di versi e piacere dannunziani (Verdone),
ostinatamente votato a una musa cialtrona che neanche lo calcola. L’ex soubrette televisiva oversize e cocainomane.
Ricchi di professione,
scrittrici-portaborse sinistrate, aristocratiche radical chic. Nobili a noleggio e anziane principesse annoiate al
tavolo delle carte. Tronfi collezionisti di opere kitsch e pacchianerie di pseudo-artisti da salotto.
Arte povera e umanità poverissima. Prelati che sorseggiano champagne in
ristoranti alla moda e giovani novizie in coda per un’iniezione di botolino. Il
pedante e sussiegoso cardinal Bellucci (Herlitzka), appassionato di culinaria
geloso di attenzioni, che dispensa ricette invece di concedere udienza
spirituale.
Tutti ugualmente disperati, cui non resta
che farsi compagnia e prendersi un po’ in giro, prima che cali il sipario sullo
“squallore disgraziato e l'uomo miserabile”. Sorrentino
scalfisce, profana la sacralità dell’icona (religiosa, cinematografica)
dissacrando con levità, senza cattiverie, rabbia indignata né compiacimento.
Soltanto rapito, curioso, amareggiato dalla varietà di quest’umanità stanca,
sfibrata e sudaticcia che scimmiotta trenini “belli perché non vanno da nessuna
parte”.