«Questo
non è quel tipo di film», avvisano i
personaggi di Kingsman - Secret Service
ogniqualvolta si va profilando una chiosa risolutiva alla J.B. Non è James
Bond. Nemmeno Jason Bourne. Ma il tempratissimo Jack Bauer del piccolo schermo.
Fatta salva l’integrità british, la
rincorsa è al modello seriale preferito dal teppistello Eggsy, reclutato - nel proverbiale
countdown temporale - per salvare il
mondo da una nemesi nostalgica proprio dei vecchi cattivi di 007.
Kingsman
applica alla compostezza leccata del filone spionistico classico il funambolico
(bis)trattamento decostruttivo dal basso intrapreso da Kick-Ass nella fucina supereroica contemporanea. Sballottando i
registri (action-comedy, splatter-kitsch, spy-thriller, coming of age).
Provando a scardinare le gerarchie
sociali (fra i bassifondi e l’aristocrazia, scelleratezze politiche e
delinquenti di mezza tacca). Tralasciando la cupa seduta riflessiva di Skyfall,
il raggelamento asciutto e impenetrabile degli ultimi le Carré (La talpa e La spia – A most wanted man). Recuperando invece la lezione brit-pulp di Guy Ritchie aperta
all’ibridazione. Con un Colin Firth gentleman sui generis, a menar mani alla Hemingway (Ernest, non il Dom di Jude
Law) e piazzare smash in ralenty come Sherlock Holmes. Infilzando
fondamentalisti wasp invasati – scena
cult – come in un parossistico Old Boy d’oltremanica. Cavalier Galahad e novello professor
Higgins nella rieducazione formale - i
modi, i modi, for God’s sake! - tesa a
foggiare la nobiltà di Eggsy espungendone le intemperanze cockney.
Dietro abiti di lusso e spionaggio internazionale, stanno
tute cheap e volteggi parkour del guerriero urban-teen. Rampollo di periferia
addestrato ai modi classy(cheggianti)
del My Fair Lady di Cukor, mentr’è sorvegliato
a vista dall’inflessibile tradizione fatta persona, sir Michael Caine – del
quale è un piacere saggiare di volta in volta i sottotesti alcolici, dal Fernet
Branca al brandy d’annata napoleonico.
Sul
versante villain terroristici, un
Samuel L. Jackson sempre più iconico nel tratteggio fumettoso a grana grossa (dalla
Marvel a Robocop). Qui tra il vestiario
chic-rap e i rovelli da ultra-geek megalomane. Affiancato dalla letale e affilatissima killer
bio-protesica direttamente uscita da una coreografia di Robert
Rodriguez.
Da
rigurgiti pulp alla tavola rotonda
del ciclo arturiano, un’immaginario infarcito di gadget vintage, spruzzato di
Martini e messo a rifriggere. Sotto
l’apparecchiatura da ricevimento galante, si scopre McDonald’s. Tra l’eleganza
inamidata di Savile Row e il disordine isterico delle congregazioni su suolo
Usa, Matthew Vaughn cuce un’operazione d’alta e bassa sartoria insieme,
scoprendo il fianco ad appena qualche (trascurabile) spiegazzatura narrativa. In
cui il côté spionistico su misura old fashioned e l’inappuntabile ingessatura
british sono infil(tr)ati nell’habitus squillante, chiassosamente
stilizzato e oversize del cinecomix bombarolo a stelle a strisce.
Con l’ammazzamento virale dello zombie movie al tempo del digitale sottopelle
risolto a botti, champagne ed esplosioni danzanti sulla travolgente marcia di
Elgar (Pomp and Circumstance, n. 1). Sinfonia attivante memoria inscindibilmente kubrickiana - è il sottofondo alla
passerella del Potere in Arancia Meccanica, qui rovesciato nel
pomposo requiem della sua
deposizione - dentro la replica della sotterranea war room delle élite fulgidamente smantellata in una distruzione
alla Strangelove. «La società è morta. Viva la società.» E le principesse scandinave. Dietro un’austerità
affettata, in verità generosissime. Dio salvi le regine.