martedì 9 dicembre 2014

A kind of magic




Archiviate le nevrosi del crack finanziario e il dissesto morale del contemporaneo scelleratamente esaurito di Blue Jasmine (2013), Woody Allen si rituffa sul calar dei roaring twenties ritrovandovi il tempo perduto per l'appiglio a un’illusione ideale, e il tempo ideale per un'illusione perduta. Cinema-bolla, serbatoio inesausto di giochi di prestigio e coup de théâtre come salvifico inganno autoindotto.

«L’universo sarà anche privo di senso, ma non certo di magia». Magic in the Moonlight inganna fin da titolo e premessa. Distraendo con un trucco preliminare alla Scoop (2006). Ammiccando agli sfondamenti del reale, all’atmosfera sognante di un’epoca irripetibile, agli incantesimi dell’arte di un Midnight in Paris (2011) estivato in una Côte d'Azur di luminosità favolistica e tinte fitzgeraldiane. Con tanto di auto scorrazzante alla Gatsby. La medium rivestita del cognome di Jordan Baker (le mazze da golf si scorgono in una scena). Il triangolo (senti)mentale fra legami razionali e tentazioni dell’amour fou, rincarnazione occulta di quello fra Nicole-Dick-Rosemary in Tender is the Night.

La notte è foriera di presenze e fantasmi, solo più parchi di apparizioni e sostanza rispetto a Midnight in Paris. Il (jet) set cosmopolita d’altri tempi si sposta in riviera. Attraversato dalla stessa rieducazione sentimentale del «genio brillante» - lo sceneggiatore Gil e il mago Stanley - intrappolato nell’austera logica intransigente finché sedotto dall’inspiegabile attrazione naïf - lentraneuse d’artisti Adriana e l’incolto spiritismo yankee della sensitiva di Kalamazoo.

Con (relativa) sorpresa, si è invece ospiti della più pragmatica, cinica e pervicace commedia alleniana. Tra pigre tentazioni fideistiche e intatta sfiducia nichilista (non Dickens ma Nietzsche e Hobbes, con cui Stanley sarebbe andato d’accordo, ipse dixit). Lo scoramento degli intellettuali e la felicità degli stolti, la resistenza del reale e la necessità delle illusioni. Variante sardonica, smaltata e alleggerita dei cupi e sussiegosi ritiri altoborghesi di Settembre (1987), fra il quid ectoplasmatico di Scoop declassato a riserva di yogurt e il sempreverde bisogno di uova fresche di Io e Annie (1977). Con la fuga della coppia tra le stelle dell’osservatorio, al riparo dalla pioggia, citazione diretta del romanticismo malinconico nel planetario in controluce di Manhattan (1979).

Il punto di forza è nel cast brillantemente assortito fin nei ruoli secondari (irresistibili le punzecchiature british dell’attempata zia Eileen Atkins), ripescando tipizzazioni dell’Allen più recente. Jackie Weaver tardona credulona come la Gemma Jones di Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni (2010). Il mattatore Firth nuovo Splendini, più charming, meno borderline, dentro e fuori dal palco senza ricorrere allo smaterializzatore. Basta che funzioni la menzogna (in)consapevole. «È come assistere a un trucco di cui non capisco il segreto» dice Stanley di Sophie. 

È lo stesso piacere incantatore sprigionato dalle commedie di Allen, anche le più indisposte e meno ispirate. Il trucco va ripetuto. La solita magia. Temi e figure sempiterne di cui si conosce ogni mossa e battuta, ma che trasportano rapiti nel racconto dell’inganno, e nell’inganno del racconto. Se piace, battere un colpo. Se non convince, batterne due.

domenica 7 dicembre 2014

Scoregge scoraggianti


«È questione di tempi comici». Nella riuscita di uno scherzo impensabilmente folle come nel successo di un sequel giunto a vent’anni di distanza dal prototipo. Dieci anni prima avrebbe scontato minor efficacia. L’impatto non sarebbe mai stato così divertente. Lo spiega Lloyd Christmas spiattellando il senso della finta paralisi inscenata ai danni del fido Harry Dunne. Ma è soprattutto quanto sembrano pensare i fratelli Farrelly sulla gestazione di Scemo & più Scemo 2. Quasi giustificando il ritardo in sala dei loro tardi beoti, la necessità dell’attesa sorniona prolungata a beneficio di una rimpatriata più clamorosa. 

Parafrasando balordamente la formula di un personaggio di Crimini e misfatti di Allen, ne deriva una comicità risultante dalla somma "demenza + tempo". Lo schema è noto: azione-deiezione. Dissenteria teorica del comic movie. Ovvero escrementismo sovraesposto, sgradevolezza flatulente e caratteri al grado zero del cult Scemo & + scemo (1994) rimessi in scena alla prova del tempo. Tarati sulle goliardate del(l’ec)cesso contemporaneo, fin troppo intasato di leoni allo sbaraglio e rigurgiti di senilità pimpante. Non fosse che lo scarico degli sketch è più rotto di quello su cui stava seduto Harry in Scemo & + scemo. L’intervallo ventennale non ha cambiato nulla. Tolti i siparietti con lo smartphone e i segni dell’età sul volto dei protagonisti, Dumb and Dumber To potrebbe tranquillamente passare per un film del ’95, uscito a ridosso del predecessore. A rivederli assieme, nessuno scarto davvero rilevante. Come un unico film (ri)vissuto - da Carrey e Daniels - e (ri)visto - dallo spettatore - in due età diverse, con immutato e immaturo spirito d’imbecillità decerebrata.  

Road movie a tappe scatologiche e sbandate sessocentriche. La meta da raggiungere, il pacco da consegnare, il cambio di vettura. L’onirismo erotico ora romance ora ninja di Lloyd, lo scambio di persona, complotti e omicidi sventati per caso. Si viaggia all’indietro, all’incontrario come i due scemi, ripiegando su materiale d’altri tempi (comici). Basterebbe la gag sul safe sex, ammuffita già all'epoca del primo Dumb and Dumber, con l’amplesso di Lloyd protetto dal casco a rievocare il Leslie Nielsen infilato nel condom a misura umana di Una pallottola spuntata (1988). 

«La fortuna di non avere un’identità è che non corri il rischio che qualcuno te la rubi» dice in un punto Harry. La demenza irredimibile, geneticamente ereditaria (la storyline di Penny) dei Farrelly resta orgogliosamente autoreferenziale. Fedeltà incondizionata all’insana scempiaggine del modello originario, non più originale. Senza il retroterra ipercitazionista del demenziale di riporto contemporaneo dei vari Scary/Epic/Ghost Movie ed Angry Games (2013). Al netto dell’orrore coppoliano mimato da un pappagallo e dell’«amore lungo lungo» di Full Metal Jacket scimmiottato da Harry e Lloyd.  

Il sospetto è che, più che prestare il fianco a un’ovvia stroncatura, da Comic Movie (2013) in giù i Farrelly si facciano interpreti (consapevoli?) dell’appiattimento di una comicità sguaiata ormai inoffensiva. L'acida involuzione nel bassoventrale spinto e spurgato del primo Dumb and Dumber lascia spazio a una stitichezza indurita. Tra un "culo libre" e l’inveterato "pisellare", è la veracità provocatoria ed eversiva del turpiloquio godereccio a scemare drasticamente, strappando non più di un sorriso affettuoso. Pernacchie ascellari e peti depotenziati, non più infiammabili. Scoregge che scoraggiano, nonostante camei inaspettati e l’idea fake di un Dumb and Dumber For in arrivo (forse) tra vent’anni.  




sabato 1 novembre 2014

Walkman on the moon



«Io sono Groot». Nomen omen. Nella battuta autoreferenziale scandita a ripetizione dalla pianta umanoide si inscrive la natura dell’operazione di James Gunn. Growth + Root. Crescita e radici, capacità di (ri)generazione illimitata. Guardiani della Galassia apre un (v)arco narrativo nella declinazione sci-fi del Cinematic Universe incrociando gli stilemi consolidati del franchise. L’espansione spaziale della galassia Marvel, e di un fandom sempre più allargato e trasversale, passa attraverso l’azzeccato crossover di mood tra la diversità feconda dei perdenti emarginati presa agli X-Men e le caratterizzazioni stridenti, le punzecchiature rimpallate del Team Avengers. 

Scorrendo parallelamente al nastro magnetico vintage un lessico diegetico mutevolmente plurimo, dettato dalla situazione e dai registri cozzanti dei personaggi. In bilico tra il divertissement letterale e il gioco metaforico, l’epico e il buffo, «il grande spettacolo di luci» (parole di Yondu) e il sostrato di un immaginario mixato di generi e nostalgia eighties che scivola piacevolmente addosso allo spettatore. Adescato alle citazioni come a godersi fuor di metafora gli sberleffi insensatamente gratuiti di Rocket e le smargiassate senza filtro di Drax. 

I Guardiani diventano promotori di una divertita odissea nelle meteore raffreddate e decostruite della fantascienza d'antan (Star Wars e Star Trek depurati della filologia rispettosa di Lucas e J.J. Abrams). Rivisitate a tempo di ballate pop-rock, permeabili ad ogni suggestione ironica ed iconica pur riflettendo minacce contemporanee (i kamikaze Kree, gli accordi di pace violati). Tra la mutapelle Saldana e l’incrocio alieno Pratt, Xandar è meta-luogo di mescolanza ibrida come la Terra è il pianeta degli archetipi di finzione, da Bonnie e Clyde e Billy the Kid al goffo anticonformismo ballerino di Footloose (1984). In mezzo sta la dimora del Collezionista, a custodire reperti museali dell’improbabile fauna Marvel del passato (la bonus scene amplia per una volta gli inside jokes pregressi invece di allacciarsi a narrazioni a venire). 

La parola chiave è sospensione. Dell’incredulità, ovviamente. Della suspense e dei climax. La gravità pomposa e tonitruante del cinecomix messa in pausa col rewind affettivo di un Walkman. Il tempo frizionato, campionato con le (sotto)tracce musicali, cuffie isolanti un feeling e capsule condensative di un’epoca. Time in a Bottle, seguendo la  hit che in X-Men - Giorni di un futuro passato modellava il ralenty. A spasso nel tempo negli spazi di una canzone, a conferma di un preciso refrain stilistico. Dentro un vortice di senso stratificato e sensi galvanizzati in perpetua dilatazione. I Guardiani ritorneranno. Il nuovo equipaggio della Marvel Enterprise(s) è appena salpato. 

giovedì 30 ottobre 2014

Giudice e giuria


L’avvocato trafficone, cinicamente compiaciuto, (auto)assolto da etica professionale e sensi di colpa in attesa di giudizio/redenzione, è spesso al vaglio del cinema americano, dalle derive grottesche della commedia (il Jim Carrey di Bugiardo bugiardo, 1997) alle sfumature più cupe del legal thriller (il George Clooney di Michael Clayton, 2007). Per The Judge sul banco degli imputati sfila stavolta Robert Downey Jr., difensore seriale di colpevoli intento a scagionare il padre rinnegato Robert Duvall da un'ambigua accusa di omicidio. Lo scenario è quello intimo e avvolgente del dramma familiar-generazionale di provincia intriso di riscatto sociale e rude paternalismo da pick-up nel vialetto. Ma il mestierante Dobkin, tra dispute domestiche e dibattimenti in tribunale, gag sul vomito ed echi annacquati di Mystic River (2003), non amalgama a dovere la troppa carne al fuoco. Indeciso, come il cocciuto giudice Palmer, sulla strategia da adottare, in quale sede (indagine procedurale, legal drama, familismo di ritorno, commedia sentimentale) sciogliere caso e nodi narrativi

Il conflitto al vetriolo e la turbolenta convivenza padre-figlio sono ben tratteggiati alternando il riso sbracato alla commozione dolente. Ma l’inutile deviazione negli equivoci amorosi e l’indugio nel pastone ideologico di un patriottismo a mezz’asta (la reputazione-eredità di giusto severo di Duvall da salvarsi al pari dell’inflessibile e incompresa integrità di Reagan, in un tessuto reazionario quasi per legge) minano l’amara sincerità di fondo. 

La regia d’ufficio delega tutto all’intensità degli attori e alla metamorfosi emotiva di Downey Jr. Qui sul doppio scranno del produttore-interprete impegnato a smorzare la consueta maschera di provocatore sfacciato e stronzo irresistibile per una platea di giurati âgé (la maggioranza in sala, richiamata dall’autorevolezza classica di Duvall) più indulgente con un figliol prodigo compassionevole davanti a morte e malattia. Emerge su tutto il paesaggio umano di un’America di rettitudine morale e fiducia nell’individuo come istituzione ultima. Nazione giudice e giuria di se stessa non per sfuggire alle condanne, ma per inchiodarsi a colpe e responsabilità di un passato, pubblico e privato, invariabilmente violento e incidentato. L'obiezione è legittima. 



giovedì 23 ottobre 2014

La solitudine del velocista



Il labirinto non al centro di perdizioni di senso e ambiguità della visione, ma dispositivo prigioniero dell’affannosa rincorsa al testo d’origine (il bestseller per ragazzi di James Dashner) e al pretesto narrativo di partenza (la fuga). La solitudine dei Velocisti è la condanna di Maze Runner – Il labirinto all’inseguimento di piste già battute. (Co)azioni di gruppo a ripetere schemi e tipologie dell’universo teen fantasy. La temporalità circolare, la struttura a prove/livelli, la sindrome dell'accerchiamento post-apocalittico immersa in un anti-Eden di prescelti paiono usciti da un distretto minore degli Hunger Games

L'intreccio blando e collaudauto è mappatura intricata ma in fondo lineare di un modello produttivo a scatola chiusa. Attivo a orologeria come la gabbia-ascensore da cui sbucano i personaggi. Appena dirottato con flash(back) alla Lost e dosato a compartimenti (stagni?) di figure dell’immaginario e funzioni narrative sulla scia di Quella casa nel bosco (2012). Munito di entrate (Teresa) e uscite (Alby) calibrate, ostacoli piazzati meccanicamente (i mostruosi Dolenti), resti di memoria disseminati agli angoli e rivelazioni sbloccate al momento giusto. Con le scelte azzeccate di non cadere (per il momento) nel sentimentalismo ricattatorio e di lasciare più di una porta aperta ai sequel

Nell’ostinato Gally, conservatore ottuso che cede alla superstizione nell’impalamento sacrificale del nemico, c’è l'eco del guerriero Jack de Il signore delle mosche. Ma il pessimismo di Golding resta lontano, se a trionfare è l’indiscusso razionalismo decisionale di Thomas. Abbondano le citazioni, dai risvegli in oblio di The Cube (1997) e Total Recall (2012) alle pandemie virali di Cronenberg, con il suicidio in video di Ava Paige, scandito da evocative parole testamentarie («WICKED è buono»), che rimanda a quello di Videodrome (1983). I coloni della Radura come inconsapevole “nuova carne” da laboratorio, antidoto evoluto per malattie cerebrali e defezioni sociali. 

Spunti riflessivi fin troppo marcati visto il target di giovanissimi, fandom affamato di avventure evasive e mitologie friendly senza troppo interesse a rinvangare strati profondi di memoria cinematografica. Chiedendo, al pari dei personaggi, null’altro che un empatico meccanismo di identificazione e un punto di fuga suggestivo dalle manipolazioni degli adulti. Percorsi a brevi distanze che la distopia di Wes Ball è senz’altro in grado di assicurare.  

 

domenica 19 ottobre 2014

Giustizia privata




L’individuo invischiato in una falsa minaccia esterna, celante giochi di potere insospettabilmente in seno al Sistema. Non è la sinossi di The Equalizer – Il Vendicatore, ma la premessa narrativa di Shooter (2007) a spiegare il repentino salto di Antoine Fuqua dall’eroismo roboante e manifesto di Attacco al potere – Olympus Has Fallen (2013) all'anonima giustizia privata del nuovo film. Alla luce di The Equalizer, pare che Fuqua, coinvolto, come il protagonista di Shooter, nell’enfatica messa in scena di una situazione limite spinta all’inverosimile (il Presidente in ostaggio nel bunker della Casa Bianca), ne abbia poi percepito l'eccessiva forzatura ideologica, drastica mistificazione di un immaginario del terrore proiettato comodamente all’esterno. 

Tirandosene fuori per scardinare i colpevoli nell'illegalità meticcia della Nazione, tessuto sfilacciato e corrotto fin dai tempi di Training Day (2001). Si riparte proprio da una coppia al tavolo di un diner. La lucciola Chloë Grace Moretz fa da esca narrativa subentrando alla recluta Ethan Hawke. Denzel Washington è la quieta mina inesplosa che riaccende la miccia non per rinfoltire la melma urbana (Alonzo Harris) ma per riequilibrare torti invisibili in una Boston notturna e periferica. Insozzata nell'olezzo criminale di sangue e cemento, petrolio infiammato e benzina inalata, lividi tatuati a pelle e distintivi appuntati sul marcio.

Fuqua affila la tensione sul volto impassibilmente sgranato di Washington, ma gratta la superficie dell’action con i ferri arrugginiti di un mestiere divenuto maniera (il telefonatissimo montaggio alternato nell’irruzione a casa MCCall), mentre il suo giustiziere smonta l’oligarchia mafiosa un pezzo alla volta con gli attrezzi dell’everyman ordinario elevato a chirurgica macchina assassina. Che si “rivela” come il barista di A History of Violence (2005) e studia mosse al rallentatore come lo Sherlock di Guy Ritchie.

La giustizia privata... di freni e controllo. Fuqua è reazionario nel senso di una preminenza accordata all’azione radicale dell’individuo in un Sistema indifferente ai soprusi, quando non loro attivo complice. Il senso fondante di un’esistenza altrimenti rinnegata in un passato sconosciuto, tale da scomodare perfino una citazione di Mark Twain. Lo slancio del singolo è anche incursione politica, se MCCall chiude i conti a Mosca troncando le infiltrazioni russe alla radice (sono freschi i tumulti internazionali sul caso ucraino). 

È allora il regista il vero equalizzatore che riordina l’immaginario delle tensioni. Il lavoro di Fuqua va letto come termometro tempestivo, quasi involontariamente sintomatico, degli slittamenti del cinema di genere nel setacciare contraddizioni della società Usa. Non senza la consueta ambiguità morale di fondo. “Equalizer”, in gergo statunitense, è anche la pistola, l’arma da fuoco. L’eco sinistra di una repressione sommaria o di una vendetta sommariamente giusta.  

giovedì 9 ottobre 2014

Fantasmi sul Green screen



È sempre questione di come entrare in e come uscire da, nell’universo centrifugo e maleodorante di Sin City. Il successo dei personaggi nella città del peccato. L’accesso dello spettatore, partecipe o meno, alle sue narrazioni frammentate. Si giocano entrambi su incroci e percorribilità di un’estetica e di una topologia assurte a cult, fra nuove traiettorie visive disegnate dal 3D nativo e cercati spostamenti di senso dell’immaginario hard boiled. Nel costante presente milleriano di tempi, monologhi ed eventi, aggirando gli incastri cronologici, lo spettatore è gettato nel sequel come scaraventato da una finestra in frantumi. Guidato a (e)seguire e far propria la pista di Marv: riconosce ciò che vede e sa dove si trova, ma non ha idea di come sia finito lì, né dove arriverà. È la strada giusta? Forse solo a metà.


Una donna per cui uccidere entra ad occhi spalancati in un vicolo cieco, che non è l’imbuto stagnante del racconto ma il viale del tramonto della classicità hollywoodiana secondo Frank Miller. Divismo corrotto e galleria di icone livide e cariche di erotismo come le labbra di Ava Lord. Stagliate tra ville e palme di una Basin City più tortuosa e collinare. Tatuate di colori e luce fessurata anni ‘40, incastonate - non intrappolate - fra gli stilemi del noir e i fantasmi redivivi del predecessore. Riabilitazione aggiornata ai tempi o tardiva revisione post-postmoderna? Il rischio è quello evocato da una frase di Dwight McCarthy: aggiungere benzina quando non serve, finendo per girare a vuoto per il gusto di rivivere un fremito estetizzante probabilmente esaurito nella lunga gestazione produttiva. Di certo restano a secco le parentesi gambling di Joseph Gordon-Levitt e il segmento finale, con Jessica Alba che ha le pose e il magnetismo discinto del sex symbol senza l’aura dark e ossessionata richiesta a un’autentica lady vendetta. 

Arginata l'exploitation del primo capitolo, Miller e Rodriguez puntano massicciamente sul Green screen. Non gli inflazionati scenari in digitale ma il corpo nudo di Eva, solenne e voluttuoso, sensualmente scolpito e algidamente retrò, a riempire lo schermo disseminato di mortifere pulsioni desideranti. Tenendo in piedi da solo il film nell'atmosfera perversa dell’uxoricidio con inganno stile fiamma del peccato (Double Indemnity, 1944), mentre il maggiordomo adorante pare un’inspessita caricatura pulp del Max von Mayerling di Sunset Boulevard (1950).


Ma forse è lecito godersi la superficie del tratto, senza andare più in là. Il fenomeno Sin City non può né espandersi gonfiato né rinnovarsi ristretto in una narrazione davvero autonoma, fondato com’è su un (non)luogo cinematografico aperto ad ogni suggestione cinefila ma formalmente chiuso sotto l’egida del suo creatore (Frank Miller’s). Nel fumetto è motivo di originalità. Nella serializzazione cinematografica può rappresentare un limite. Vengono in mente le parole usate da Gianni Canova per la Gotham City di Tim Burton, ispirata proprio da Frank Miller: “città mondo” senza “un’esternità”. “[...] Nessuno va mai via dalla città, quasi nessuno ci entra arrivando da un altro luogo”. Anche Sin City perlustra nuove strade narrative per tornare invariabilmente al punto di partenza. Si può solo svicolare, restare appartati per riaffacciarsi al momento giusto. Fare un giro lungo rientrando nel testo da un’altra porta, magari quella sbagliata. Il piacere di (dis)perdersi non è certo un peccato.   

martedì 7 ottobre 2014

Mutatis Mutandis



Ridotto all’osso, anzi, al guscio, il plot delle Tartarughe Ninja è la storia di una mutazione. Dei suoi effetti nel tempo, delle scorie sotterranee lasciate nel contesto urbano, mediale e  cinematografico. Origine talmente arcinota da essere relegata nel didascalico prologo-sunto in stile bozzetto fumettoso. Poco interessante, se non involontariamente ridicola, anche quando richiamata nel flashback sulla crescita e l’addestramento dei quattro rettili mutanti (un bignami d’arti marziali ammuffito scovato nelle fogne dall’autodidatta Splinter e il gioco è fatto). Eppure, tematizzare ancora la mutazione e rifletterne sul processo (accidentale o meno?) vale almeno a rintracciare un discorso sulla trasformazione del blockbuster nel transito da una generazione all’altra, nella dialettica produttori-target spettatoriale. Cosa ci dice Tartarughe Ninja di Jonathan Liebesman e Michael Bay in proposito? Che tutto muta profondamente senza in fondo mutare affatto, e a entrambe le parti, autori e consumatori, va bene così. 

Facciamo un parallelo con il film del 1990, Tartarughe Ninja alla riscossa di Steve Barron (Teenage Mutant Ninja Turtles), dimenticato cult adolescenziale dell’epoca e prima sortita in live action dei guerrieri in bandana. Nel passaggio dal B-movie sbalestrato e indipendente ai grossi budget dell’intrattenimento di massa, dagli animatronics rivestiti da Jim Henson (il padre dei Muppets) alle tute per la resa in motion capture, il brand Tartarughe Ninja conserva il suo carattere di universo derivativo, il ruolo di alleggerimento parodico e scrematura ironica dell’immaginario dei filmoni coevi o che appena lo precedono. Le nuove tartarughe arrivano per ultime, dopo tutti i paladini degli anni 2000 (ri)proposti sullo schermo, in fase di piena metabolizzazione dell’ondata di supereroi in digitale, similmente a quanto il film del ‘90 giungeva al culmine degli anni ’80 centrifugandone il melting pot di giustizieri muscolari (Rambo e Terminator citati nelle battute dei Ninja, l’imitazione di Rocky offerta da Michelangelo), e traviandone i racconti di formazione a base arti marziali allora in voga (The Karate Kid, 1984), con le baby-gang di ninja agli ordini di Shredder. 

Il nuovo Michelangelo può dunque fare il verso alla voce arrocchita del Batman di Nolan, ma sono i personaggi tutti a recare in sé qualcosa preso ad altri, a partire dall’April O’Neil di Megan Fox. Un Sam Witwicki di Transformers (2007) al femminile, la fuga dal quotidiano a contatto con materia extra-ordinaria e avventure bigger than life. Un po’ Lois Lane a caccia di un presunto Superman solitario e un po’ Peter Parker fotografo, con i “mostri” invisibili che una Whoopi Goldberg in versione J.J. Jameson non sa se sbattere o meno in prima pagina. Più che a Raimi si guarda piuttosto al primo The Amazing Spiderman (2012) di Marc Webb, con William Fichtner dalla scuderia Bay per un cattivo a due dimensioni che ricalca la storyline di Curt Connors (gli esperimenti coi mutageni in laboratorio, lo scienziato partner oscuro del padre dell’orfano/a protagonista, impegnato/a a decifrare segni di un passato ambiguo). Shredder, privato della mistica da samurai, è un main villain tutto metallo e lame che cingola e rimbomba come un Transformer. Alimentando il sospetto sull’operazione come continuo inseguimento del mero, assordante rumore di fondo. Rifinitissimo trash di lusso che fa rimpiangere quello ingenuamente genuino di Steve Barron, dove Shredder non a caso finiva letteralmente nella spazzatura. 

Narrativamente piatto ma instancabilmente caotico, Tartarughe Ninja dice tutto e nulla di nuovo ai teenager di oggi (mutanti anche loro?), sedotti come ieri dai trend imposti dalle subculture popolari (lo spiega Splinter). Ai ritmi sincopati dell’hip-hop, dalla ninja-dance di Vanilla Ice (Go Ninja, Go Ninja Go!) che in Tennage Mutant Ninja Turtles 2 (1991) impazzava in pista nello scontro tra freaks, fino alle tartarughe di oggi, che sospendono l’azione rappando in ascensore. Per poi piazzare la sfera specchiata sul tettuccio della ninja-car (che vedremo nel sequel già in cantiere). Accessoriata con tanto di Dolby Digital 7.1., per il gasamento di Michelangelo. Se l’andamento è soporifero e tutto sa di già visto, per chi s’accontenta, il volume del blockbuster mai come ora è pompato ai massimi livelli. Cowabunga!

lunedì 6 ottobre 2014

A song of ice and fire



Niente più sessioni di training per il giovane Hiccup, sfuggente ai dettami paterni in groppa al fido Sdentato, lontano dal villaggio di Berk affannato in corse di draghi simili al quidditch potteriano, sempre in cerca di pezzi di mondo da scoprire. È il medesimo lavoro di mappatura allargata tracciato dagli autori di Dragon Trainer 2, per un sequel che espande i confini dell’universo diegetico spalmandoli in una narrazione più complessa e stratificata. Senza proteggersi troppo nell’accumulo in serie del già collaudato (più azione, più personaggi, più sequenze aeree), Dean DeBlois si accampa sotto l’ala dei serial, in un racconto modulare a focalizzazioni incrociate, con salti spazio-temporali che riscrivono la storia trasformandola in parte in un prequel del primo film (in attesa del terzo capitolo di una trilogia annunciata). 

A partire dal setting, una cronaca del ghiaccio e del fuoco per un’epica cavalleresca alla Game of Thrones (la new entry Ereth interpretato da Kit Harington, il Jon Snow della saga di Martin). Tra lotte di potere , il convitato dei Re (il flashback di Stoick) e il tema della successione, custodi di foreste perdute e pirateschi Signori dei Draghi. 

Con un occhio ai kaiju nipponici e uno alla convivenza ambientalista di Hayao Miyazaki, ispirazione dichiarata di DeBlois e del produttore Chris Sanders, in una saga che fa del volo l’elemento risolutore del rapporto uomo-natura. Il maestro giapponese è espressamente citato nella caratterizzazione dell’antagonista. Drago Bludvist come la regina Kushana  di Nausicaä della Valle del vento (1984): nemici ostinatamente in cerca di vendetta contro una faunistica che li ha mutilati, ma con cui potrebbero imparare a coesistere (la stirpe dei Draghi in luogo della Giungla Tossica di Miyazaki). Che è poi la morale resa visivamente nel rapporto Hiccup-Sdentato: unire le debolezze (l’ala mozzata e la gamba di ferro), non le forze, per volare oltre i limiti. In un prodotto per famiglie comunque coraggioso, inevitabilmente riconciliato ma solo attraverso perdite dolorose. Domati i draghi e le responsabilità di Hiccup, è l'animazione Dreamworks a perfezionare il suo training.  

sabato 4 ottobre 2014

Immortalità e riproduzione



Quel risveglio di Lucy in camera da letto, sola, sfibrata e guardata a vista da sconosciuti, più che ripetere la rinascita della ribelle Nikita (1990) fa pensare per un attimo ad Alien (1979) di Ridley Scott. La donna sente una sacca esterna nell’addome quasi riflettendo lo sgomento dell’ufficiale Kane penetrato dalla mostruosa creatura annidata nel petto. Siamo allora dalle parti di un cinema di corpi ibridi e colonizzati che premono per far uscire un discorso sull’umano invaso dalle sovra-stimolazioni del contemporaneo. Sui limiti e/o le possibilità illimitate del corpo cinematografico soggetto a potenziamento continuo.     

Lucy è certamente fantascienza filosofica slabbrata e parossistica a là Luc Besson, più e forse meglio che ne Il quinto elemento (1997). Ma è anche un film profondamente metatestuale. Il regista transalpino dimostra maturità non più limitandosi a flirtare con le icone e giocare con le citazioni, ma, similmente alla protagonista con la droga innestata negli organi, assume il cinema come sostanza endogena di cui verificare le deflagrazioni teoriche intestine dall'interno del cinema di genere. L'accademismo avviluppato nel ventre di un impianto action estremo (gli inserti in montaggio parallelo di matrice eizensteiniana a riprendere i contrappunti sul mondo animale del Nymphomaniac di Lars Von Trier). Come le ipotesi del professor Norman concretate nell’ultracorpo di Lucy. Attenzione alle parole chiave della sua ricerca. “Immortalità” e “Riproduzione” come varianti di adattamento all’ambiente. Non sono anche le modalità di diffusione del cinema? Pratica di morte al lavoro che consegna flussi di vita all'eternità, ripristinati ogni volta nell’atto e nell’attimo della riproduzione. Termini antitetici per la scienza, inestricabili e ricuciti nel processo-cinema. Suturati nel corpo mutante di Scarlett Johansson, dispositivo attoriale aperto, come il cinema, alla multi-connessione affettiva e smaterializzata (Lei di Spike Jonze) come all’incubazione di raggelate presenze aliene (Under the Skin di Jonathan Glazer).

In epoca di eccesso visivo e metastasi digitale, lo spettatore osserva insieme a Lucy l’immagine dell’auto che segue lo stesso percorso a velocità sempre maggiori, fino a scomparire dallo schermo, presente ma non più visibile dall’occhio umano. Contro ogni raziocinio matematico, l’unità di misura della vita si scopre quella del cinema stesso: il tempo e il suo controllo, le illusioni ottiche e percettive indotte. Contrazione e dilatazione. Lucy manipola la materia del mondo come il regista dispone il cut sul girato, maneggiando lo scorrimento. Accelerazione o ralenty. Avanti veloce nell’universo o il rewind della civiltà. Registrazione completa e frame stop, fino al brusco jump cut che dal laboratorio ci spara all’indietro tra dinosauri e pellerossa restando seduti su una seggiola da Pc. 

L’omaggio a 2001: Odissea nello spazio (1968) non si risolve negli ovvi rimandi allo scimpanzé nella pozza o alla scoperta del fuoco, ma trova il fulcro in Lucy come corpo-involucro capace di saldare un salto evolutivo abissale paragonabile a quello del celeberrimo osso-astronave. Costituendone forse la tappa successiva. Se però il superuomo kubrickiano sfociava nel tunnel dell’immateriale e dell’atemporale, con il feto dello Star Child stagliato su una costellazione eterea già oltreumana, l’eroina ultraumana di Besson non è una Lucy che varca i limiti ascendendo in the sky. Ma figura sacrificale tutta terrena che assorbe il mondo per restituircene la complessa materialità primigenia, arcaico crogiolo di potenzialità ancora inespresse con cui fare i conti, qui e ora, nel traffico eccitato e stordente dell’attualità. Quanto è distante il 100%? È una sfida all’implementazione di corpi ed energie di cui è innanzitutto il cinema a doversi fare carico.    

lunedì 18 agosto 2014

Le catene del mito



In tempi di peplum revival, lo scontro fra titani della stagione è quello che ha visto collidere a pochi mesi di distanza Hercules – La leggenda ha inizio di Renny Harlin (uscito in gennaio), protagonista Kellan Lutz,  e Hercules – Il guerriero di Brett Ratner con Dwayne Johnson (in sala dal 13 agosto). Altri due prodotti dell’intrattenimento mainstream ascrivibili a un processo di revisionismo smitizzante (si pensi alla recente invasione di rivisitazioni fiabesce, da Biancaneve fino a Maleficent), stavolta incentrato sul celeberrimo forzuto della mitologia greco-romana. Da Harlin a Ratner, l’assunto di base sembra partire da una rilettura dal basso, terrena, precariamente umanizzata dello status ontologico del semidio Hercules. Il mito scalfibile, mortale e attualizzato come il corpo dell’eroe. Suscettibile di  una messa alla prova, un’ideale fatica aggiuntiva da portare a termine per attestarne la valenza simbolica (il ritorno dall’esilio e la lotta contro il re Anfitrione nel primo caso, la battaglia contro il sovrano dei Traci Cotys nel secondo). Trattamento ed esiti delle due opere prendono però due strade diverse. 

Harlin, tentando più una conferma che una riscrittura della leggenda (imposta fin dal titolo), in sintonia con l’action-adventure contemporaneo sceglie la formula dell’imitazione esibita. C’è una scena chiave dove Hercules sfida Anfitrione in duello pronunciando le identiche parole usate dal re nel prologo. «Imitazione, la più nobile forma di adulazione» risponde Anfitrione. Il déjà vù esplicita il senso dell’operazione di Harlin: la forma filmica che ne imita pedestremente un’altra, senza nascondersi, anzi dichiarandolo. Hercules – La leggenda ha inizio come clone spurio, figlio (il)legittimo de Il gladiatore (2000), in un prodotto che, come il suo protagonista, rivendica la paternità di modelli esterni ad ogni sequenza (Il gladiatore, come detto, ma anche l’estetica al ralenty di 300 e del serial Spartacus). Nulla di male. Soltanto che l’imitazione non si traduce mai in ibridazione che produce qualcosa di nuovo. E in definitiva finisce per smorzare il conflitto vulnerabilità umana-indistruttibilità divina. Hercules come ennesima variazione dello schiavo-legionario tradito in cerca di vendetta e giustizia nell'arena.


Non aiutano a riscattare il film evidenti richiami cristologici: l’annunciazione a Maria-Alcmena, Hercules prima ripudiato poi salvatore riconosciuto dal popolo, fustigato e “inchiodato” alle catene rivolto al Dio-padre («Io credo in te»). Proprio quest’ultima scena stabilisce un ulteriore scarto con il film di Ratner. Se per Harlin Hercules si libera invocando il padre, riconoscendo finalmente la discendenza divina in uno sguardo gettato al cielo, l’Hercules di Dwayne Johnson spezza la catene scegliendo di credere solo a se stesso. A una forza costitutiva quanto insondabile, incoraggiato da chi ugualmente crede in lui (Anfiarao e i mercenari) senza avere certezze del suo stato immortale. «Io sono Hercules»... e basta, verrebbe da dire. Non a caso nel film di Harlin, dopo l’indecidibilità iniziale, fanno capolino segni della scintilla divina (l’aquila dorata, i fulmini di Zeus sulla spada dell'eroe) completamente assenti in Hercules – Il guerriero. Qui, mai uno sguardo dall’alto a sorvegliare, nemmeno gli occhi evanescenti di Era (muta statua di pietra) onnipresenti nel kitsch in salsa medievale dell’Hercules Tv con Kevin Sorbo.  

La leggenda ha inizio spezza solo apparentemente le rigide catene del mito, preoccupandosi presto di riagganciarle, imprigionandolo in uno schema tradizionale. E Hercules il guerriero a lasciarlo libero di (s)fuggire a un senso compiuto e definitivo. Indovinando l’idea di esplorare il dualismo del personaggio con leggerezza beffarda e divertita, talora cafona ma mai disonesta. Snaturandolo senza forzare i toni. Scegliendo di mantenerne l’ambiguità sulle origini fino in fondo, senza risolverla affatto, in un processo di ri-narrazione continua e slittamenti di prospettiva del racconto (il passaggio di consegne tra Iolao e Anfiarao dall’incipit al finale). 

Ed è qui che il film di Ratner, pur in un impianto convenzionale, si mostra maggiormente riuscito. Nel presentare una riduzione in senso letterale, un mito in sottrazione, dosato, spartito e condiviso (la compagnia di mercenari). Un eroe orfano di una leggenda che chiede invano di essere verificata. Ma non serve accertare la leggenda (come nel film di Harlin). Basta quel tanto di verità dietro il mito. Umanissima odissea coi piedi piantati per terra (come le falangi istruite da Hercules). Di sangue, muscoli e denaro, carne pompata in bella vista e lacerazioni occultate, ma anche di lealtà, onore e compassione. Grazie soprattutto ai volti azzeccati per i comprimari (Hurt, Sewell, McShane) e a un Dwayne Johnson che definire introspettivo sarebbe inappropriato, ma che dopo qualche prova più sfumata (The Snitch, 2013, Pain & Gain, 2013) attenua la reputazione di colosso dalla recitazione d’argilla, strizzando l’occhio con (auto)ironia senza alzare borioso il sopracciglio.



Questo mito disinvolto e inconsapevole non è thesaurus di imprese celebrative da catalogare per forza, narrazione da sostanziare riannodando tracce esibite del divino in un’epica da bazaar ambulante, come fa il cantore Iolao imbonendo su scudi, elmi e corazze di Hercules. Ma diventa puro McGuffin per la destrutturazione dell’eroe e del bestiario mitologico di riferimento, che rilegge le false ombre dei centauri e di Cerbero in chiave psicanalitica, come paure collettive e traumi individuali innestati in un immaginario consolidato. Dove anche le dodici fatiche, rimandate ai titoli di coda, sono poca cosa dinnanzi al rimosso di Hercules, peraltro sbrigato grossolanamente. 

Il merito del film di Ratner, lo spiega Autolico, sta proprio nel non raccontare tutto, omettendo dettagli, limando la grandeur. Altrimenti la battaglia non comincia. Nemici e spettatori battono spaventati in ritirata. La narrazione si spegne in partenza. In fondo, come illustra il finale aperto, anche chi si appresta a tramandare il mito dovrebbe essere morto.