venerdì 30 maggio 2014

Inversione a X



Il futuro ha inizio nel 1973, nel dopo-Vietnam degli accordi di Parigi. L’ora X scatta con l’omicidio del creatore delle Sentinelle, meccanoidi capaci di adattarsi ai mutanti e annullarne i poteri. Mystica è catturata, i suoi geni rubati, i mutanti prossimi all’estinzione in pochi decenni. Dal futuro, Xavier e Magneto spediscono Wolverine indietro nel tempo, per cambiare il corso della Storia e salvare il destino della specie.


Nostalgia vintage e revisionismo mutante sembrano essere le coordinate di X-Men – Giorni di un futuro passato. Esplorati i turbolenti anni Sessanta con X-Men – First Class (2011), il secondo pannello della trilogia-reboot affonda le radici negli ancor più critici e criptici Settanta. Dalla crisi dei missili di Cuba al disorientamento post-Vietnam in era Nixon, tra i due capitoli si inscrive lo sfaldamento del mito democratico della nuova frontiera. Che qui significa innanzitutto integrazione dei mutanti, o loro definitiva eliminazione. La natura anche politica dell’operazione di Bryan Singer, rientrato al timone della serie, salta all’occhio in una sequenza chiave, sotto apparenze innocuamente ludiche. Quella in cui l’ipercinetico Pietro/Quicksilver, fatto evadere Magneto, respinge l’assalto dei vigilanti allentando il tempo, imprigionando i personaggi nel fermo-immagine. Lui accelera con la musica, elemento strutturante, con Time in a Bottle di Jim Croce a far da bolla, capsula condensatrice di un tempo altro, prendibile, malleabile. Dove il gesto di scansare un’arma o curvare un proiettile concretizza il desiderio utopico di deviare le traiettorie della Storia per rimetterla sui binari giusti, con una brusca inversione a X nella saga dei mutanti.


Days of Future Past applica alla continuity narrativa la stessa logica di successioni e dirottamenti temporali attuata dal film: il tempo come fiume che scorre in una direzione precisa, dove un’onda anomala o una pietra scagliata nell’acqua posso modificarne il corso, produrre una falla. Così il moto della saga X-Men procede linearmente (anche quando trascura l’ordine cronologico), ma all’azione dei singoli (film e/o personaggi) concede di introdurre discrepanze, cambiare il proprio ruolo/destino all’interno della continuity, deviando tangenzialmente o addirittura invertendo la rotta del senso e degli intrecci (emblematica l’immagine di chiusura, che semina nuovi dubbi sulle gesta del maggiore Stryker).


Non è un caso che dello sbalzo temporale si faccia carico proprio Wolverine, il solo mutante a godere di un filone cinematografico dedicato e indipendente  (i due spin-off  X-Men le origini: Wolverine, 2009, e Wolverine – L’immortale, 2013), anche in contraddizione con gli eventi della trama principale (rimandiamo a Wikipedia per i dettagli). Ma contestare le incongruenze di continuity sarebbe come tacciare di anacronismo la rivisitazione degli eventi storici. Filologicamente corretto ma fuorviante, in un film che negli sfasamenti temporali trova il suo centro, al pari dei cortocircuiti allacciati con il cinema di fantascienza. Il confronto diretto tra il Charles Xavier sdoppiato (giovane e invecchiato), oltre a gettare un ponte tra la prima trilogia e il nuovo corso, replica quello tra le due versioni di Spock negli Star Trek (2009-2013) di J.J. Abrams (su uno schermo, inoltre, si scorge per alcuni istanti un episodio, Al di là del tempo, tratto dalla serie originale, incentrato proprio su un viaggio indietro nel tempo). Altri innesti provengono dall’universo serial contemporaneo (il Peter Dinklage di Game of Thrones) e da Christopher Nolan, con la Ellen Page di Inception (2010) a guidare il sonno/sogno di Wolverine, o Magneto che sale al potere dal centro dell’arena sportiva come il Bane di The Dark Knight Rises (2012).

L’unico futuro non ancora passato è quello delle immagini preservate dal cinema e dal suo immaginario. E che proprio attraverso l’azione del cinema possono “mutare”, se non per riscrivere, almeno per ripensare la Storia, ripristinando una speranza e uno spirito del tempo che forse, come un gene-X, hanno saltato questa generazione. Ecco la ragione del formato sgranato in Super-8, con in sottofondo il rumore della bobina, per filmare alcuni frammenti dell’irruzione degli X-Men ai trattati parigini. Lo stesso Super-8 che ha catturato le celeberrime riprese dell’omicidio Kennedy, mostrando tutto senza spiegare nulla. Magneto ha fatto centro o tentava di deviare il proiettile? (McAvoy li curvava in Wanted, ma qui è un ammaccato Xavier senza poteri). La verità sul passato resta un paradosso fuori dal tempo. E non sarà un caso che in una sequenza Erik si preoccupi di estrarre da un proiettore una bobina compromettente, sottraendola al passato per nasconderla al futuro.

lunedì 26 maggio 2014

Maps to the Scars


Dopo Cosmopolis (2012), un altro film di Cronenberg inizia in un parcheggio, con due personaggi a discutere di limousine. “Ne avevo richiesta una allungata” sollecita la pallida Agatha Weiss (Mia Wasikowska) appena sbarcata ad L.A. “Nessuna era disponibile” spiega l’autista. È Robert Pattinson, che dalla culla tecnologica del sedile-divano di Cosmopolis  passa al volante per traghettarci a bordo del nuovo universo cronenberghiano. All’incrocio di traumi e comparse fantasma, residui malati e schegge di un immaginario hollywoodiano triturato e restituito in frantumi. Partendo proprio da Pattinson, morto miliardario e risorto autista di divi. Giù dalla limo e dentro la macchina-cinema. Microcosmo ovattato al riparo di gusci fintamente protett(iv)i (set, roulotte, interni di lusso). Tra figure dolenti dietro vetri oscurati (l’amplesso di Pattinson con la sfiorita Julianne Moore sui sedili dell’auto replica quello con Juliette Binoche di Cosmopolis) e nidi familiari allo sfacelo acquattati all’ombra delle palme di Beverly Hills. La mappa delle stelle è costellazione di cicatrici ed esistenze devastate, percorso accidentato sopra l’inferno e non cammino verso la fama. Cronenberg somministra alla fabbrica degli incubi il medesimo trattamento riservato alla psicanalisi (A Dangerous Method, 2011) e alla crisi finanziaria (Cosmopolis): messinscena gelida e narcotizzata, somma di campi e controcampi estenuanti, venati di inquietudine e di un’ironia ancor più corrosiva e straniante perché deliberatamente fuori luogo. Il mondo delle produzioni cine-televisive è dissezionato regredendo alle forme della sua piatta e indiscriminata inconsistenza, fra registri umorali e stridenti, in un sincretismo ridicolo che mescola soap opera e film d’autore, attrici sul viale del tramonto e enfant prodige intossicati, statuette dorate e merda d’artista.

Maps to the Stars è una cartella clinica di ossessioni terminali. Volutamente senza uno stile definito, non collocabile in alcun genere. Anzi, i generi li svuota e (tra)sfigura tutti, come chiariscono i personaggi stessi. “Evita le frasi da film noir” rimprovera Stafford Weiss ad Agatha, chiamata Dorothy (la protagonista de Il mago di Oz, 1939) quando obbligata ad abbandonare il luccicante regno dei sogni. Così come il fantasma di Clarice Taggart (Sarah Gadon) si prende gioco della figlia sfidando le regole del thriller soprannaturale (“Non penserai di essere ne Il sesto senso”). La sterilità ammorbante di un cinema defunto, l’impossibilità di girare un remake  (Stolen Water per  Havana Segrand o il seguito di Bad Babysitter per Benjie Weiss) o di partorire una sceneggiatura certificano il fallimento e l’autodistruzione di vite che non possono svoltare. Trascinate in basso da demoni non scongiurabili attraverso la finzione, deus ex machina che ingoia corpi e li rigetta cadaveri, annegati in piscina o arsi vivi tra le fiamme. 

In Maps to the Stars il cinema diviene materia inerte, depotenziata, incapace di proiettare ferite e di suturarle. Di visualizzare, dare forma ed esorcizzare i fantasmi dell’inconscio collettivo. Havana Segrand (Julianne Moore), guardando vecchi film in bianco e nero, sogna la reincarnazione nel corpo attoriale della madre e un’impossibile rinascita artistica. Forse vorrebbe penetrare o lasciarsi penetrare dalle immagini come il Max Renn di Videodrome (1983), ma resta al di qua dello schermo. Stafford Weiss (John Cusack), il terapista-guru, prova a liberare rabbia e aggressività latenti nel corpo di Havana, ma sembra la degenerazione new-age del dottor Raglan di The Brood (1979), o una caricatura da talk-show del rigoroso Jung di A Dangerous Method (con riferimento all'Imago Dei). Solo la sfregiata Agatha Weiss, rimosso che torna in asettici guanti neri, riesce ad aprire più di uno squarcio dentro il letale incesto tra star-system e abusi familiari. Elemento estraneo e perturbante, pulsione schizofrenica che scoperchia le certezze del sogno americano. Spandendone ovunque il fetore putrescente (Havana si lamenta per la puzza), stillandone le macchie di sangue (il ciclo sul divano). Riflettendone il volto autentico, butterato, ustionato e purulento, senza ricorrere al make up. L’unico sul quale Cronenberg scelga di riversare la fotografia ripulita e luminosa, quasi da tavolo anatomico, di Peter Suschitzky. Gettando ancor più luce sui buchi neri di questa galleria crepuscolare di stelle marce e (de)cadenti. 

venerdì 2 maggio 2014

Il più antico del mondo


Ogni film che annoveri nel cast l’ingombrante presenza iconica di Woody Allen si prende un rischio: quello di diventare facilmente, nella percezione e nelle attese del pubblico, un film “di” Woody Allen a tutti gli effetti, anche quando trattasi di progetto scritto e/o diretto da terzi, nel qual caso Gigolò per caso di John Turturro. L’effetto è duplice. Se da un lato ci si assicura credito immediato presso la platea ampia e trasversale affezionata alla comicità del genio newyorkese (in questo senso, fin dal trailer Gigolò per caso regala pillole a ripetizione dell’Allen mattatore umoristico), dall’altro si rischia di appoggiarsi esclusivamente alla sua performance nel costruire il film, e quindi valutarne la riuscita complessiva, trascurando la presenza di una sensibilità registica e stilistica altra (per quanto magari affine, con Turturro cresciuto come Allen tra gli isolati di Brooklyn).
Si fa questa premessa per scoprire che Fading Gigolò è invece un film ascrivibile a pieno titolo a John Turturro, infuso del suo carisma attoriale misurato ma tosto, sempre attento a non lasciarsi fagocitare dalla presenza straripante di Allen. Turturro ne ingaggia le nevrotiche prestazioni sopra le righe per poi farsi avviare dal suo alter ego Dan Bongo al mondo del ménage a pagamento, e da lì cercare una personale strada (registica). Sotto il segno di una teatralità smaccata. Il mestiere più antico del mondo sembra essere la simulazione. La performance a letto è sess(i)o(ne) attoriale, recita in “anteprima privata” di un sicuro successo con le donne (I’m just a gigolò/and everywhere I go/people Know the part I’m playing” canta Louis Prima nel trailer). 
Se i primi minuti seguono un andamento da commedia pura, imperniato sulle gaffe della strana coppia alle prese con l’azzardo della prostituzione part-time, pian piano emerge una dimensione più intimamente malinconica. Temperata dall’ironia e da parentesi di grottesco ispirate ai fratelli Coen (presso i quali Turturro ha effettuato molto del suo apprendistato artistico): Bongo fronteggia impaurito i tre rabbini del tribunale ebraico ortodosso quasi fosse il Larry Gopnik di A Serious Man, 2009
Nondimeno resta ficcante la descrizione di una solitudine metropolitana fatta di appartamenti, stanze, quartieri e gruppi sociali non comunicanti. Individui che si riconoscono nella loro disperazione discreta (Fioravante/Virgil abbordato da una sua avvenente “collega”), guardandosi (“Tu mi vedi dentro” confessa la giovane vedova Avigal prima di togliersi la parrucca, l’habitus sociale), senza però arrivare a toccarsi. Le mani di Fioravante sulla schiena di Avigal subito scatenano il pianto e la paura di scoprirsi (ancora vivi). È la stagione (immutabile?) dei sentimenti sbocciati per appassire all’istante, come i fiori del protagonista. Anche la spiegazzata Sharon Stone è versione sbiadita della mangiauomini fatale di Basic Instinct, alla quale non basta più accavallare gambe per prostrare uomini ai suoi piedi, ingraziati a suon di mance e cioccolatini. 
Rapporti interrotti e amori a rapida dissolvenza (fading, appunto). La stessa dell’immagine in pellicola, che nell’incipit passa dalla fotografia sgranata e ingiallita di una New York autunnale rimembrata con nostalgia allo scenario attuale, pervaso di luce limpida e (ri)pulita ma certo più anaffettiva. Con lo scarto d’epoca saldato nella bottega di libri antichi in procinto di chiudere. In mezzo si è persa tanta, autentica Passione. Quella che Turturro prova a restituire con le vibrazioni del percorso melodico, vero sottotesto emotivo, tra cadenze jazz alleniane, lo Sway di Dean Martin, i passi latini a braccetto con la Vergara, con il culmine nell’interpretazione vernacolare di Vanessa Paradis di Tu si’ ‘na cosa grande di Modugno. Innamorarsi, il mestiere più antico del mondo.