giovedì 26 giugno 2014

America corale



C’è una frase di Bob Gaudio, nel finale di Jersey Boys, perfetta per essere affibbiata al Clint Eastwood cineasta: “Io vengo da dove mi capita di trovarmi”. L’eterno straniero senza patria in un cinema dal respiro classico, ma mai allineato, stavolta si insedia a Belleville, New Jersey, provincia estrema. La scalata al successo dei Four Seasons negli anni ‘60 parte dal marciapiede di una strada attraversata dallo scorsesiano Vincent Piazza (Boardwalk Empire), narratore rivolto agli spettatori come un novello e strafottente bravo ragazzo, primo del coro di voci a commento della storia. 

Il gigante Eastwood non ha certo bisogno di modelli, ma nel fondere il musical nel familismo gangster delle mafie italo-americane il referente naturale non può che essere Scorsese, la sua prospettiva dal basso (della scala sociale) e da dentro (le diatribe familiari), al servizio di una visione amara e disincantata del sogno americano, qui comunque ricucita in ultimo con la reunion celebrativa delle vecchie glorie in stile Space Cowboys (siamo lontani dall’Eastwood più pessimista).  

Musical e gangster movie sono i generi coevi alla Grande Depressione, e anche per Eastwood e la sua band(a) il quartiere e la miseria si lasciano solo diventando mafiosi o uomini di spettacolo, ma forse è la stessa cosa. Lo spiega Tommy DeVito, che porta il nome del malavitoso interpretato da Joe Pesci in Goodfellas, oltre a finire in esilio forzato a Las Vegas come il Nicky Santoro di Casinò, impersonato sempre da Pesci. Il cortocircuito aumenta con l’innesto di Joe Pesci (Joseph Russo) tra i personaggi del film, giovane e sconosciuto talent scout per cui proprio Tommy finirà per lavorare.

Eastwood dialoga con il cinema e le sue icone. Incidere un disco come graffiare un solco nel filone backstage del musical hollywoodiano. Il turbolento processo creativo che presiede alle canzoni del quartetto diviene metafora dello schizofrenico lavoro dietro la macchina-cinema: chi procura i soldi o li sperpera dissennatamente (Tommy), chi produce (Crewe), chi scrive il copione (Bob) e chi lo interpreta (Frankie Valli), chi è comprimario frustrato dai vezzi delle star (Nick Massi). Non a caso, l’ispirazione per il testo di Big Girls Don’t Cry arriva da una battuta di L’asso nella manica di Billy Wilder che il gruppo guarda in Tv.

Qui però, i fari dei media e le luci della ribalta saranno sempre il chiarore di un lampione sul marciapiede. Lasciare il quartiere sì, ma senza dimenticarne i valori fondanti. L'appartenenza di gruppo dove i solisti non sono ammessi, un senso di identità (Frankie Valli con la “i”) e di riconoscenza radicale, il rispetto della parola data, quella stretta di mano che è l’unico cont(r)atto in vigore per chi viene dal New Jersey e dal cinema eastwoodiano di gesti e valori perduti. La sola garanzia di fiducia in un mondo che vede fuggire tutti uno dopo l’altro, anche i propri figli. “Avrei dovuto incatenarla al letto?” si chiede Frankie perduta Francine, riproponendo il tema della responsabilità delle figure paterne sempre centrale in Eastwood (Million Dollar Baby, Gran Torino). 

L'eredità trasmessa è ancora una volta un'America di luci e ombre, sogni, ferite e contraddizioni che premono per esibirsi dal vivo, invece di restare un coro anonimo in sottofondo. 

giovedì 12 giugno 2014

Un caso ancora aperto



L’agente speciale Costner attraversa stradine e mercati di Parigi in sella a una bicicletta da donna. Eppure, due tirapiedi lo sbeffeggiano chiedendogli se sia smontato da cavallo, dove abbia lasciato gli stivali, irridendone la virilità (“Questo viene da Brokeback Mountain”). Il ragazzo di sua figlia si imbarazza al cospetto di colui che considera un vero cowboy, accennando un’improbabile parlata rude. Tutti lo vedono come archetipo vetusto e anacronistico di un tempo andato. Dandogli il benvenuto nel nuovo millennio con una suoneria cool. O facendolo sentire fuori posto anche in un diverbio sulla barba di un prigioniero. “Questi sono baffi”, si difende il Costner ancorato ai folti mustacchi ottocenteschi di Balla coi lupi, Open Range e Hatfield & McCoys. “Si, forse nel tuo secolo”, lo schernisce la partner Amber Heard, killer fumettistica dell’era digitale che pare uscita da Sin City.


McG alterna screzi e situazioni da comedy con ritmi action meglio di quanto non facesse in Una spia non basta. Ma 3 Days To Kill, più che uno spy movie senile e atipico alla Red, si configura innanzitutto come film-spia dello status divistico di Kevin Costner negli anni Duemila. Uccidere per non morire sul grande schermo. Lo scorrere dei giorni contati di Ethan Renner, affetto da tumore incurabile, coincide con il lasso di tempo filmico a disposizione dell’attore per tastare la propria resistenza cinematografica e dimostrare di essere un caso ancora aperto, riconquistando spettatori prima di moglie e figlia della storia. Primo artefice dei suoi successi (Balla coi lupi) come dei suoi clamorosi tonfi (Waterworld, Mr. Brooks), l’eroe tenace, malinconico e vulnerabile dell’avventura in solitaria qui approfitta dello script di Luc Besson per varcare, dopo le praterie indiane, le terre di confine, le strade violente dell’America di Eastwood (Un mondo perfetto) e le verità impenetrabili di quella di Oliver Stone (JFK), l’ennesima frontiera della sua filmografia: quella dell’action movie duro e puro venato di un iper-cinetismo da fumetto (la scena dell’inseguimento parte proprio sotto gli occhi di un bambino che legge comics di agenti segreti). 


Non abbastanza eccessivo, spaccone e mercenario per l’arruolamento negli Expendables di Stallone, Costner attraversa il genere a modo suo, come ha fatto con il western. Ricercando una dimensione di riconciliazione intima (la relazione padre-figlia prevale sulle atmosfere thrilling). Uno spazio e un sogno di libertà (ricordiamo Field of Dreams dell'89) che forse non appartengono (più) al suo Paese. Non a caso è costretto a sconfinare a Parigi, meditando in riva alla Senna pur conservando l’orgoglioso animo sportivo di Tin Cup e Gioco d’amore nel difendere lo sport americano dalle contaminazioni europee. Anche se le certezze non dimorano da nessuna parte (i coinquilini senzatetto di Ethan). L’eroe e il divo non sono più recintabili in un ruolo preciso. “Tu sei un buono?” chiede un bambino al protagonista. Costner non risponde e ci chiude la porta in faccia.

giovedì 5 giugno 2014

L'arma del giorno dopo



Il domani non muore mai per il soldato Cage, ed è sempre un buon giorno per morire. Maggiore USA degradato a comune disertore, cade in battaglia e rivive in loop la carneficina compiuta da imprevedibili invasori alieni.  
Edge of Tomorrow, o la guerra dei mondi possibili. Doug Liman recupera da The Bourne Identity la brusca rinascita del protagonista incastrato in un contesto ostile, ribaltandone le premesse: se Jason era l'unico a ignorare la sua identità passata contro un sistema che lo braccava, Cage è il solo a conoscere la verità su se stesso e sulle sorti dell'umanità all'insaputa di tutti.

Il Tom Cruise neo-muscle hero dell'action fantascientifico, condannato all’oblio di memoria (Oblivion) o alla rimozione di un futuro preconizzato da altri ma a lui invisibile (Minority Report), qui riavvolge a ripetizione il tempo bloccandosi in un eterno presente senza domani. Come un Jumper teletrasportato sempre nello stesso punto, in attesa di un'altra prova decisiva dopo quella sfoderata con Jack Reacher (ritrovando Christopher McQuarrie in vesti di sceneggiatore dopo Mission: Impossible - Protocollo fantasma). Il "giorno del giudizio" come immutabile routine addomesticata.


#ViviMuoriRipeti. L’hashtag di promozione sbattuto in locandina e ritwittato da trailer e social network è il fulcro di un dispositivo narrativo a ciclo invariante e ritmo continuo, alla ricerca di un apax risolutivo in mezzo ad ellissi, iterazioni, déjà vu e flashforward depistanti. La progressione accumula i tentativi della mission impossible come una sessione videoludica (elemento già presente nel light novel giapponese di derivazione, All You Need Is Kill). Dove il corpo è già corpse ancor prima di scendere in battaglia, (eso)scheletro di celluloide (“C’è dentro un cadavere in quella tuta” dice di Cage un soldato). E le canoniche partizioni spazio-temporali del war movie, addestramento e campo di battaglia, qui rientrano indistintamente nello stesso ambito della simulazione-tutorial, una palestra digitale. 

Uno sparatutto free roaming in terza persona in cui i giocatori-avatar conservano memoria di mosse ed errori compiuti durante il percorso, sbloccando l’arma del giorno dopo e studiando strategie alternative per raggiungere il checkpoint o la safe zone successiva. Si consumano vite illimitate, salvando i progressi ed eliminando i bug di sistema (la falsa pista approntata dagli alieni). Lo standby non è previsto. Se i danni sono troppi, resettare tutto e ricominciare da capo. 

Cage, intrappolato nella gabbia dell’eterno ritorno, trova il tempo per evadere beffardamente dalla pomposa inflessibilità della retorica militaresca, legata a cliché anacronistici duri a morire (il sergente Farrell di Bill Paxton, che dalla massa di parassiti indifferenziati vorrebbe forgiare un crogiolo di eroi, come una caricatura in baffetti del sergente Hartman). 

Per questo le guerre del futuro assomigliano invariabilmente a quelle del passato. Il secolo breve e il giorno più lungo. Vive, muore e si ripete anche la Storia del Novecento, (conta)minata da riletture aliene. La sanguinaria battaglia di Verdun, monumento di eroismo e resistenza a oltranza, diventa subdola illusione di vittoria e inutile leva di propaganda per reclutare donne-soldato (l’impavida Full Metal Bitch di Emily Blunt). Il nuovo sbarco in Normandia è un’offensiva fallimentare, con i soldati impantanati tra le trincee di sabbia. Per la fine dell’occupazione aliena e la liberazione di Parigi serve uscire dal (corto)circuito videoludico, senza più vite di riserva. Disattivare i bonus, lasciarsi ferire e sanguinare andando incontro a un sacrificio completamente umano. Risvegliarsi finalmente nel domani, per scoprire che è ancora un buon giorno per vivere.

lunedì 2 giugno 2014

Lontano dal castello



C’era una volta… in un regno lontano… un re e una regina… in un grande castello. Qui invece c’è una svolta. Due terre attigue, sovrani vanagloriosi alla conquista di un bosco fatato, giovani in cerca di fortune e custodi alate, l'amore disperso fra inganno e vendetta. “Ascoltate questa storia, forse non è come l’avete conosciuta” avvisa un’imprecisata voice over. Maleficent attesta fin da titolo e incipit il cambio di prospettiva nel rivisitare la fiaba della Bella Addormentata. E lo fa partendo da esplicite marche extratestuali, con il consueto castello-logo disneyano trasformato in dissolvenza incrociata nel castello di ambientazione della storia. Modulazione di un’icona tipica della factory, il castello reale (quello di Biancaneve e i sette nani, 1937, La Bella e la Bestia, 1991, e ovviamente della Bella Addormentata), che simboleggia e prelude all’aggiornamento del classico di casa Disney (La bella addormentata nel bosco, Clyde Geronimi, 1959).


Il castello di Maleficent è punto di partenza, non più rifugio e approdo finale di eroi ed eroine. Spazio dal quale allontanarsi e non istituzione a cui far ritorno, travisando la morfologia fiabesca di Propp. Caricato di piena valenza significante, diventa il luogo-fortezza in cui si barrica la tradizione disneyana (Re Stefano saldamente ancorato a fianco del plastico in miniatura del castello) sul punto di essere scardinata da contraddizioni e figure del cinema contemporaneo (Malefica). Il vettore di svalutazione di vecchi topoi deposti: il bacio risolutivo del principe (similmente a quanto avveniva in Biancaneve e il cacciatore, 2012), le nozze e il ballo di corte, sostituiti da sequenze di lotta in cappa e spada con riformulazione dell’identità (il recupero delle ali), dove anche il drago cambia pelle e sponda. Perfino l’immancabile incoronazione finale in presenza dei sudditi avviene fuori dalle mura, nello spazio aperto alla contaminazione (anche cinematografica) della Brughiera, con il favore delle sue bislacche creature. I personaggi provano allora a muoversi in territori fiabeschi affini (Stefano armato di coltello alle spalle dell’ignara Malefica sembra quasi il cacciatore di Biancaneve, con il “falso segno” delle ali strappate al posto del cuore di cinghiale), per poi dover ammettere di aver dimenticato le disposizioni narrative classiche, come accade alle tre imbranatissime fate che riportano Aurora al castello con un giorno d’anticipo. Funziona bene solo chi, come Fosco, abbraccia una natura instabile e metamorfica.


La perizia scenografica dell’esordiente Robert Stromberg (affermato production designer) non si risolve nel semplice piacere della confezione, ennesima tassonomia fantasy tra Avatar, l’Alice di Burton e Il Signore degli Anelli. Ma diventa impalcatura visuale attraverso la quale dichiarare la fedeltà di fondo ai modelli d’origine (la fiaba di Perrault e il classico del ’59) nel momento stesso in cui se ne prospettano dei rovesciamenti. A tal proposito, ricordiamo che in origine il termine “addormentato” si riferiva al bosco, e non alla fanciulla. Da leggersi dunque nell’accezione di “La bella nel bosco addormentato” (La belle au bois dormant). Stromberg interpreta la suggestione nell’immagine della foresta ridotta a  brulla sterpaglia di tenebre, dove tutto giace morto, addormentato appunto, sepolto sotto la coltre di rabbia di Malefica. Nelle varianti fiabesche e nel classico disneyano, era invece la popolazione del regno a cadere in un sonno profondo per mano delle fate. Allo stesso modo, la fitta muraglia di rovi giganti, solitamente eretta intorno al castello, è qui dislocata ai confini del bosco. Cerniera dell’ignoto, dell’estraneo trasformato in culla materna. È quello di Malefica il vero spazio simbolico da penetrare e riscattare (mentre il turning point è da sempre l’ingresso del principe azzurro al castello), esplorandone la natura ambivalente che riflette l’essenza scissa del personaggio.


Maleficent, grazie alla fascinazione magnetica e spigolosa della Jolie, ne offre un’interpretazione originale e sfaccettata, lontana dalle caratterizzazioni precedenti, in cui era presentata come niente più che un'arpia offesa per il mancato invito al ricevimento. Prototipo moderno che evade le dicotomie (bene-male), confonde i ruoli (madre, matrigna, amante tradita, orfana) e scompagina le funzioni proppiane (eroe, tutore, antagonista, impossibile collocare Malefica), accantona la concezione di un male austero, metafisico e stregonesco, per farsi incarnazione ordinariamente umana delle difficoltà di relazioni del contemporaneo (la veglia quotidiana su Aurora è un'altra innovazione rispetto al canone). “Il male è di questo mondo”, spiega Malefica ad Aurora. Nessuno può evadere da quest’incantesimo. Infine ci si ricorda di essere in un prodotto Disney, la famiglia si ricostituisce nel segno del “vero amore” e si può vivere felici e contenti. Ma stavolta, ben lontani dal castello.