giovedì 30 gennaio 2014

The Wolf of Wall Street



Il rumore dei soldi 
Nel cinema di Scorsese, non si sente più la fragranza delle banconote. Appassita come il profumo della prima moglie di Jordan Belfort, lupo d'assalto con fiuto per la ricchezza e narici intasate dalla coca. Non se ne percepisce nemmeno il gusto (“il denaro vinto è più dolce di quello guadagnato” diceva il Fast Eddie di Il colore dei soldi, 1986), perché ci si ingozza fino a strozzarsi, ingoiando quattrini in overdose (“mi sono mangiato due milioni di dollari” balbetta strafatto il partner Donnie Azoff). Non se ne possono più seguire gli spostamenti, tracciarne il percorso preciso (l’uomo con la valigetta diretto alla cassaforte nel piano sequenza iniziale di Casinò, 1995). Tastarne la consistenza materica e simbolica. 
The Wolf of Wall Street ne fa risuonare soltanto il rumore, il rimbombo assordante. Un caos di telefoni roventi, urla, trombe, tamburi e tastiere ticchettanti negli uffici sovraffollati della finanza di fine anni '80-inizio '90. Nell’era della speculazione immateriale, il potere e la pregnanza del feticcio-denaro si convertono nella volontà di potenza e godimento sfrenato di chi lo consuma come una droga. 
Più che su conti offshore e banche straniere, il capitale si trasferisce sui corpi. Corrodendoli, scialacquandoli, dissipandoli (svalutandoli?). Sostanza stupefacente appiccicata sulla pelle, come sintetizzato dall’immagine della stripper coi verdoni incollati addosso con il cellophane. 




Inside (blow)job  
Soldi e droghe entrano in circolo attraverso un linguaggio spinto, urlato, isterico e rabbioso, eppure allentato e biascicato, dove ci si mangiano parole insieme ai verdoni (Jordan e Donnie che blaterano insensatamente legati ai fili del telefono). 
E poi goliardico, bassoventrale, compulsivamente sessualizzato fino allo stremo (il rapporto anale mimato da Jordan come traduzione, contrappunto visivo di un reato senza corpo). Inside (blow)job, seguendo una greed economy imperniata sul capitale come libidine finanziaria (“strofinatelo pensando ai soldi” istruisce Mark Hanna/Matthew McConaughey). 
I discorsi invasati di Jordan, la voice over che ci interpella, le riunioni strategiche con il team (per assoldare nani usati come freccette) sono la versione euforizzante, demenziale, alcolica, animalesca e caricaturale (Belfort-Popeye) degli sproloqui verbosi e incomprensibili dell’Erik Packer di Cosmopolis (David Cronenberg, 2012). 
Belfort ci prova a spiegare qualche tecnicismo finanziario allo spettatore, ma subito si interrompe. I meccanismi strutturali non contano se tutto è all’insegna della sregolatezza. Chimica di squadra e alchimie allucinate, deregulation dissennata di sostanze illegali e titoli tossici, disciolti in un miscuglio letale di paraventi e prestanome. Con l’effetto ritardante di una pillola scaduta. Se il crack fumato in pipa nel retro della tavola calda fa sballare all’istante, il crollo del castello di carta straccia(ta) di Jordan (banconote gettate al vento, accartocciate nel cestino) avviene gradualmente, ma per questo la “botta” è ancor più destabilizzante.



Quotazioni sballate 
I soldi e la droga, scambio di valute e Quaalude, traffico illecito di flussi e oscillazioni instabili per uno squilibrio perfetto (“sono i soldi la droga più potente”). Fra i rituali tribali nella giungla orgiastica della finanza (Jordan in ufficio diffonde il mantra, in salotto si batte il petto come Tarzan). Parate carnascialesche (molto main e poco mean streets), majorettes maggiorate, sfilate di  prostitute al rialzo o al ribasso come le azioni (dall’extra-lusso delle Blue Chip al cheap grossolano delle Penny Stock). In un mercato-bordello dove pure il sesso a pagamento è registrato a bilancio sotto il nome di una corporation. 
Ottundimento e sovreccitazione. Le fasi dello sballo descritte da Jordan sono anche gli sbalzi, le impennate di un mercato senza freni e schizofrenico. In sequenza, formicolio pruriginoso, a seminare la seduzione della ricchezza nei ceti più bassi (Jordan è figlio di ragionieri, considerato feccia dal primo datore di lavoro). Farfugliamento e discorsi a vanvera (le telefonate persuasive e ossessionate, i meeting ad alto tasso etilico). Amnesia (clienti usa e getta, i dipendenti interrogati che ripetono “non ricordo” in continuazione). Paralisi cerebrale, stagnazione e riassestamento precario (il Black Monday, la crisi della Stratton). Scorsese ci conduce nel vortice di questo circo lisergico con una messinscena fluida, febbrile e altalenante. Tra montaggio serrato, frame-stop e ralenty stordenti, canzoni sparate al massimo, saturazione visiva, footage in stile videotape ed estetica da spot Tv anni ’90. 
Wall Street Jordan diventa per Forbes un “Robin Hood perverso che ruba ai ricchi per dare a se stesso”, con barca “da cattivo di James Bond” e Ferrari bianca “come Don Johnson in Miami Vice”. Un capitano Achab a caccia di balene e pesci grossi (l’1% di super ricchi). Un Willy Wonka zompante con gli umpa-lumpa nella fabbrica dei sogni degli americani. Mentre l’agente alle sue calcagna lo vede come l’ennesimo, spregiudicato Gordon Gekko.  


I nativi della finanza 
Ma Jordan Belfort è soprattutto individuo-simbolo che trova la sua ragion d’essere nel solco e nel percorso della Storia americana. Più che rockstar attorniata da fan e groupie, un fanatico Presidente neo-con da convention, ad arringare gli eletti alla sacra missione del denaro dal palco dell'ufficio (“Voglio che risolviate i vostri problemi diventando ricchi”). Ultimo (?) prototipo e incarnazione evolutiva delle grandi figure scorsesiane incastonate tra grandezza e debolezze, sullo sfondo della nascita e del perpetuarsi di una Nazione. 
Nuova modulazione del corpus attoriale di Leonardo di Caprio, nel riflettere tappe e contraddizioni USA. La ricerca di vendetta, riconoscimento e riscatto sociale delle minoranze impersonata dall’Amsterdam Vallon di Gangs of New York (2002). Il fervente rampantismo dell’Howard Hughes stretto fra manie igieniste e megalomania geniale di The Aviator (2004). L’autodistruzione, la rimozione di una coscienza colpevole e sanguinaria filtrate nel Teddy Daniels di Shutter Island (2009). La labilità dei confini bene/male, il mito della doppia faccia crimine/società civile e della seconda occasione (e)spiati dal Billy Costigan di The Departed (2006). 
Infine, eccoci alla scalata ai vertici della Borsa di Jordan Belfort. “La Stratton Oakmond è l’America” dice della sua compagnia. L’ennesima terra della opportunità, fecondo avamposto (finanziario) da saccheggiare e approdo terminale di un sistema costruito e alimentato con l’avidità. E’ lo stesso Jordan a illustrare il cortocircuito quando cita i pellegrini del Mayflower che, appena sbarcati sulle coste, avrebbero per prima cosa impresso sulla roccia, indelebilmente, il nome della Stratton Oakmont. Anche l’inquirente di Jordan userà una metafora colonialista per fargli capire che si trova in trappola (il riferimento è all’occupazione dell’isola di Grenada da parte dell’esercito Usa nel 1983). 
L’America nata sulla strade, ora rinasce nella rincorsa all’oro e alle illusioni di Wall Street. 


"Vendimi questa penna"
Scorsese non condanna e non assolve. Anzi confonde le carte e insinua dubbi, rimettendo tutto in discussione nel finale. È interessante il parallelo con gli esiti di Prova a prendermi (2004) di Steven Spielberg: anche lì un capitalista giovane, ambizioso e immorale (sempre interpretato da Di Caprio) inseguito da un agente retto e scrupoloso, con i due che finiscono per collaborare. Ma se Spielberg  può avere una visione dialettica e (ri)conciliata, con il truffatore che si redime lavorando al servizio della giustizia, fianco a fianco con il suo ex-cacciatore, Scorsese la rifiuta nettamente. 
I ruoli si mischiano, i valori sobbalzano e vacillano, in borsa come nella vita. La morale non esiste, o è un disvalore inutile e deprezzato nel mondo-mercato dove tutto è in vendita. Il poliziotto si rivela individuo frustrato, oltre che broker mancato. Belfort, da par suo, non impara la lezione e nemmeno può insegnarla, come il Gordon Gekko reo confesso, guru e seminarista cool di Wall Street – Il denaro non dorme mai (Oliver Stone, 2010). Di fronte ai nuovi adepti alla finanza, Belfort ne scopre tutta la pochezza, la goffaggine e l’incompetenza (quegli sguardi stupidi e stupiti su cui si chiude il film). Una generazione impreparata, inaffidabile, probabilmente inadeguata a gestire la crisi del nostro tempo. 
Così, quasi si rimpiange l’ingenuità dei “bravi ragazzi” del quartiere di Jordan, che tra un furto e uno spaccio, sapevano almeno vendere (e vendersi) una penna.       






venerdì 10 gennaio 2014

American Hustle - L'apparenza inganna

Regia: David O. Russell 
Anno: 2014
Irving Rosenfeld è un truffatore arricchitosi con lo smercio di quadri rubati e falsi prestiti a gente disperata. Pizzicato da un ambizioso agente Fbi insieme alla socia/amante Sidney, in cambio dell’immunità è costretto a collaborare a una pericolosa operazione di polizia, tra giochi di potere, bugie e inganni insospettabili.  
 

Camerini con (s)vista
“Che io mi ricordi, ho sempre voluto fare il gangster” diceva l’Henry Hill protagonista di Goodfellas di Martin Scorsese, aprendo il flashback sulla sua infanzia di quartiere. “Volevo stare dalla parte di chi fregava, non di chi, come mio padre, veniva fregato”, spiega con sicurezza l’Irving Rosenfeld di American Hustle, ragazzotto svelto a imparare la dura legge dei bassifondi, fracassando vetrate a colpi di mattone.
Sembrerebbe dunque un perfetto bravo ragazzo scorsesiano in erba, Irving. Non fosse che all’opulenza megalomane, alla gloria e all’ambizione sfrenata, predilige un profilo basso, da “peso medio” della vita, un pò come i pugili di periferia di The Fighter (2010).
Furtarelli, patacche d’autore che nessuno reclama, ricettatori di mezza tacca, spiantati con l’acqua alla gola. Agire in un mare di pesci piccoli, colpire a raggio limitato, senza intaccare gli affari dei grandi “squali” della società.
Una “visione” (parola che occorre più volte lungo il film) del sogno americano per una volta smaller than life, serenamente circoscritta. Riversata nel desiderio, nell’abbandono totale ad un amore sconfinato (quello per Sidney) eppure racchiuso in uno sgabuzzino striminzito.
Dove cinti dal roteare di un appendiabiti meccanico, Irving e Sidney danzano teneramente sulla musica di Duke Ellington (anche la coppia de Il lato positivo si saldava nel momento del ballo). Stretti, quasi soffocati dai vestiti inamidati della lavanderia.
Vite e corpi sempre al centro del travestimento, del trucco pesante o coprente: smalti profumati, rossetti e pelle affumicata dalle lampade di Rosalyn/Jennifer Lawrence, ricci e ciocche di bigodi di Richie/Bradley Cooper e Sidney/Amy Adams, i capelli impomatati e laccati di Irving/Christian Bale, la parrucca alla Joe Pesci di Carmine Polito/Jeremy Renner.
Galleria di falsi e falsari, costruiti ad arte ma più veri del vero (“Le persone credono a ciò a cui vogliono credere”). Come il finto (?) “San Bartolomeo” di Rembrandt di fronte al quale Irving istruisce Richie sulla natura della finzione.
Continua (re)invenzione, falsificazione, contraffazione di se stessi, prima di tutto. Un make-up facciale e personale che diventa metafora del ritratto e del restyling a matita (chiaro)scura di un intero Paese. Gli Usa perennemente affannati a rifondare, ricostruirsi, ripianarsi e ripararsi (mafia, politici e imprenditori uniti per riportare Atlantic City agli antichi, scintillanti fasti del Proibizionismo).
In un sistema (liberale o criminale?) di poteri e loschi interessi mai veramente sepolto. Ma sempre in via di ristrutturazione, di abbellimento (?) e ammodernamento. Come il soffitto a volta dipinto di cui si vanta Polito, rimesso a nuovo ignorando leggi da lui stesso emanate. Smascherare i corrotti allora, non significa tanto arrestare i criminali che sparano per strada lasciando i cadaveri sul marciapiede (il boss Tellegio in un cameo fulminante di De Niro).
Quanto levare via il cerone della rispettabilità. Scrostare la patina di legalità dal volto (apparentemente) pulito di burocrati, avvocati, senatori. Svelare i trucchi della politica davanti alle telecamere. “Struccare”, invece di incollare riporti allo specchio come Irving nell’incipit.


O. Russell pedina i personaggi tra appartamenti, cucine in fiamme, bagni, stanze d’albergo, corridoi, sale appartate e suite lussuose. Tutti luoghi-backstage, camerini con (s)vista sul sogno americano: ogni volta in pezzi e ogni volta in procinto di ricomporsi. Perché la terra delle opportunità è anche il luogo dove “la necessità (di sopravvivere) è la madre dell’invenzione”.
Un piano geniale per gabbare gli altri, dopo un’intera vita passata a “truffare se stessi”, a ingannarsi, sfuggendo ai rischi e a dolorose verità. Almeno finché non si è trovato l’amore “vero”, che permetta di accettarsi come siamo, senza disagi, paure, imbarazzi. Sentendosi parte di un segreto che nessun altro sembra avere scoperto.
Più che i milioni, è questa l’unica posta in gioco. Come dice Sidney ad Irving: “Non sei niente per me, se non puoi essere tutto”. E a questo tutto si cerca di restare abbracciati, continuando a danzare sulle note swingeggianti di Jeep’s Blues di Duke Ellington. Tutto il resto, soldi compresi, può aspettare.