domenica 22 dicembre 2013
mercoledì 30 ottobre 2013
La stagione dei Grandi (ritorni)
IL GRANDE GATSBY (The Great Gatsby, 2013) di Baz Luhrmann
Le scorrerie sfrenate della jazz age fitzgeraldiana, ne Il Grande Gatsby di Baz Luhrmann
diventano racconti dell’età del rap. Con le rime di Jay-Z, il
montaggio sbalzante e sincopato. Le folli corse in auto. Le vertigini visive
della m.d.p. sui grattacieli della City e in volo sulle tenute principesche di
Long Island.
Una scatenata orgia visiva. Cine-festa
mobile di sonorità synth-pop e immagini sgargianti fino al parossismo
caro al regista. Sbornia alcolica da stordire i più rigorosi puristi del
romanzo, anche peggio dei coloratissimi fluo-drink serviti a casa Gatsby.
Gli spettatori-letterati imbucati allo
sfavillante allestimento scenico come gli ospiti ai party di Gatsby. Entrambi
rapiti dal pomposo sfarzo della confezione. A guardarsi intorno, cercando
tracce del saccheggio del romanzo (i primi). O della corruzione di un’identità
indecifrabile (i secondi). Il cui segreto non nasconde nulla di
meschino. Solo incorruttibile purezza e fedeltà incrollabile a una lucida
illusione, meticolosamente coltivata. Vitale e tragica ossessione a cui
Luhrmann dà via via maggior respiro (la delicatezza poetica nell’incontro di
Gatsby e Daisy).
Restituendo la vena malinconica sul
tramonto di un’era. La vacuità e il disfacimento della società americana
descritti nel testo d’origine. Naturalmente filtrato attraverso lo sguardo
lunare e stupefatto del Nick Carraway di Tobey Maguire. Osservatore distaccato
e abbagliato testimone “oculare”. Dentro e fuori dal racconto al tempo stesso.
Anche visivamente. Quando dall’interno dell’hotel rimira se stesso all’angolo
della strada. Incrociando nel suo doppelgganger
lo sguardo dello “spettatore casuale” intento a contemplare la “parte di
segreto umano” sprigionata dalle finestre illuminate. Non più solo voce narrante. Ma viva incarnazione del
“grande romanzo americano” (così lo apostrofa Tom Buchanan). Vero creatore
della storia battuta a macchina. Di cui si appropria apponendoci la firma.
Suggellando il titolo del manoscritto (“Gatsby”) con quelle due parole aggiunte
a mano (“The Great”). Vergando la pagina filmica con i passi del romanzo a
scorrere fugaci sullo schermo, prima di sbriciolarsi come cenere.
La scrittura come riattivazione del
ricordo e prezioso recupero della memoria. Unico rimedio al pericoloso
riaffacciarsi di antichi demoni. E’ la cura prescritta dallo psichiatra allo
smorto Nick Carraway in
treatment, recluso in clinica, depresso e alcolizzato (invenzione
assente nel romanzo). Luhrmann, con una personalissima ri(scrittura) del
classico, si affida a questo personaggio per esorcizzare gli incubi post-Grande
depressione che, tristemente, sono gli stessi di oggi: la crisi
deflagrante e l’esplosione della bolla finanziaria. Il degrado umano e morale,
la solitudine dell’individuo.
Alla ricerca dell’unica catarsi
possibile, quella offerta dalla vivacità rilucente del prodotto artistico.
Almeno al cinema, illusione plausibile e realizzata (?), al contrario di quella
di Gatsby, c’è speranza di tornare a ruggire.
LA
GRANDE BELLEZZA (2013) di Paolo Sorrentino
“A 65 anni, non posso più perdere tempo a
fare cose che non mi va di fare” è il mantra di Jep Gambardella.
Paolo Sorrentino non ci ha mai nemmeno provato a compromettersi con storie in
cui non credesse fermamente. Con La
grande bellezza conferma l’originalità di uno sguardo/squarcio sul visibile
che evade la dicotomia visivo/narrativo.
Basterebbe l’incipit. L’abbraccio volante
su luoghi e figure di Roma non in montaggio descrittivo, alla Woody Allen. Al
massimo "decrittativo". Posato su qualcosa per
decifrare vissuti e contraddizioni della Città Eterna. Il placido silenzio
marmoreo di statue e palazzoni. L’armonioso canto lirico e le becere imprecazioni
di un autista. Lo spiegone routinario della guida e frotte di turisti
orientali. Uno si defila dal gruppo, colpito da uno scorcio inatteso nel
panorama. Una rivelazione improvvisa. La grande bellezza che lo folgora per un
attimo e subito gli è fatale, inafferrabile e irraccontabile come il nulla
eterno in cui sguazzano i personaggi.
Poi, l’urlo di una donna sparato in
faccia allo spettatore, ed eccoci dentro il rumoroso cicaleggio notturno della
mondanità. Lassù, nel cielo artificiale di questa funerea e carnascialesca Roma
da bere, il titolo del film campeggia in aria come uno spotlight. La festa comincia, tutti salgono in carrozza.
L’anfitrione Jep, consumato viveur alla
ricerca del tempo perduto, vistoso dandy
dall’incorreggibile parlata cadenzata. Centometrista della vita
che in un lampo velocissimo ha bruciato fama, amicizie e amori. Uno scatto
fulminante, poi più nulla. Sdraiato a tirare il fiatone in terrazza, tra una
boccata di fumo e l’altra. (“Perché non hai più scritto?”. “Sono uscito troppo la
sera”). Il drammaturgo alla ricerca di versi e piacere dannunziani (Verdone),
ostinatamente votato a una musa cialtrona che neanche lo calcola. L’ex soubrette televisiva oversize e cocainomane.
Ricchi di professione,
scrittrici-portaborse sinistrate, aristocratiche radical chic. Nobili a noleggio e anziane principesse annoiate al
tavolo delle carte. Tronfi collezionisti di opere kitsch e pacchianerie di pseudo-artisti da salotto.
Arte povera e umanità poverissima. Prelati che sorseggiano champagne in
ristoranti alla moda e giovani novizie in coda per un’iniezione di botolino. Il
pedante e sussiegoso cardinal Bellucci (Herlitzka), appassionato di culinaria
geloso di attenzioni, che dispensa ricette invece di concedere udienza
spirituale.
Tutti ugualmente disperati, cui non resta
che farsi compagnia e prendersi un po’ in giro, prima che cali il sipario sullo
“squallore disgraziato e l'uomo miserabile”. Sorrentino
scalfisce, profana la sacralità dell’icona (religiosa, cinematografica)
dissacrando con levità, senza cattiverie, rabbia indignata né compiacimento.
Soltanto rapito, curioso, amareggiato dalla varietà di quest’umanità stanca,
sfibrata e sudaticcia che scimmiotta trenini “belli perché non vanno da nessuna
parte”.
mercoledì 3 luglio 2013
lunedì 13 maggio 2013
venerdì 26 aprile 2013
giovedì 11 aprile 2013
IL cavaliere oscuro - Il ritorno
“La resa dei conti di Gotham” è arrivata:
grazie a Bane (Tom Hardy), il nuovo villain
di The Dark Knight Rises. Il mercenario-terrorista,
il falso rivoluzionario che finge di sovvertire le gerarchie sociali (i poveri
alla ribalta, i ricchi a mangiare la polvere) per il sadico piacere di
instillare speranza nel popolo. Prima di ricacciarlo senza appello nella
disperazione.
La fine è segnata: una bomba
nucleare è in procinto di esplodere. La distruzione totale si avvicina. E
Batman? Lo ritroviamo recluso nel suo maniero. Un pensionato in vestaglia che si
trascina col bastone, isolato dal mondo (uno smunto e anchilosato Christian
Bale). Saranno un giovane poliziotto,
Blake (Joseph Gordon-Levitt), orfano come Wayne, e il precipitare
degli eventi, a convincerlo a tornare in azione.
Per affrontare Bane e sventare
la minaccia di un ancor più misterioso nemico celato nell’ombra. Nel terzo capitolo della saga sul
pipistrello, Christopher Nolan si spinge in profondità. Approda all’ultimo
livello (come nei labirinti onirici di Inception,
2010) della narrazione densa, centrifuga e pluristratificata che denota il suo
cinema.
Il prologo è mozzafiato. Tornano gli
inseguimenti
adrenalinici per le strade di Gotham, con il nuovissimo bat-wing che
vola cannoneggiando tra i grattacieli. Ritmi frenetici alternati a spezzoni più
introspettivi. Atmosfere cupe e fatalistiche da tragedia imminente. Stemperate
però dal consueto e irresistibile humour
di Alfred (Michael Caine) e di Lucius Fox (Morgan Freeman). Spicca il fascino
felino di Anne Hathaway nei panni di Catwoman/Selina Kyle. La gatta ladra,
personaggio che vuole azzerare la sua identità, con uno smacchiatore che
cancelli i suoi precedenti dalle banche dati. Forse invidia la libertà auto-generativa,
la capacità
di trasfigurazione simbolica di Bane, che può riscrivere a piacere la
propria storia tramite narrazioni (la leggenda della fuga dal pozzo). Per lei,
invece, “è impossibile ricominciare”. Nolan gestisce la corposa
sceneggiatura con abilità, senza perdere il filo tra presente e passato, tra
veri e falsi flashback, tra dimensione
intima e destini globali.
Accanto al pregevole intrattenimento di qualità, le
metafore sull’incubo sociale e urbano degli anni Duemila sono
decisamente incisive. Bane in una scena fa irruzione nella
Borsa-valori, crivellata di colpi: è il collasso della speculazione finanziaria.
La rivincita del popolo (Bane è travestito da fattorino, i suoi scagnozzi
mimetizzati tra lustrascarpe e uomini delle pulizie), defraudato di beni e
denaro dai crack della crisi economica. La massa che si ribella agli gli
squali-manager (il set newyorkese del film viveva a stretto contatto con le proteste
di Occupy Wall Street).“Questa è una Borsa-valori, non ci sono soldi da
rubare” tenta di spiegare un impaurito broker.“Davvero? E allora perché siete
qui?” accusa Bane. Conscio del nefasto potere del Dio denaro, ormai entità
invisibile, smaterializzata. Già il Joker in Il cavaliere oscuro (“The Dark Knight”, 2008) rubava banconote
al solo scopo di ammucchiarle e darle alle fiamme (la svalutazione del denaro come bene
reale, tangibile, era già tematizzata).
Bane va oltre. È
il ladro
dell’immateriale, si appropria di flussi di dati, di titolarità e identità
altrui (le impronte di Wayne sottratte per mandarlo in rovina). Annulla le istituzioni:
si installa nel Municipio di Gotham, baluardo di legge e ordine, e ne rovescia
il senso, inscenando grotteschi processi-farsa ai ricchi della città. Vittime
del suo giustizialismo sommario e sanguinario (è forse la deriva del sistema-giustizia
in America?). Mina letteralmente alla base il Sistema e il suo luogo cardine,
la metropoli. Con le colate di cemento cariche di esplosivo (sintomo di urbanizzazione
incontrollata), che spazzano via grattacieli, strade, ponti di Gotham. E vuole la sua rivincita su
Batman.
Per Bane, Bruce Wayne è il simbolo della società dell’opulenza che deve
essere annientata. Pertanto lo getta, per contrappasso, in un lurido
pozzo-prigione. Facendone il simbolo di benessere, ricchezza, potere decaduti.
In più, estromette Batman dal terreno dell’oscurità. Rivendicandola come ambito
simbolico di sua esclusiva pertinenza. Al contrario di Wayne che, nato negli
agi, ci si è immerso solo successivamente (“Tu hai solo adottato le tenebre. Io
ci sono nato”).
Nolan prosegue nel campionario
di icone di sicurezza e protezione mandate in frantumi: dopo il camion
dei pompieri incendiato e l’ospedale fatti saltare in aria da Joker in The Dark Knight, è la volta del campo
di football, tempio americano per eccellenza, che si squaglia aprendosi in una
spaventosa voragine. I vigilantes sono assenti, impotenti (l’intera forza di
polizia viene intrappolata con l’inganno nelle fogne).
Per fortuna interviene Batman, non
prima della sua ennesima risalita dal pozzo, dalle sue paure e dai suoi demoni originari. Colossale, imperdibile capitolo finale della trilogia nolaniana
sull’uomo pipistrello.
martedì 9 aprile 2013
mercoledì 27 marzo 2013
mercoledì 6 marzo 2013
Back to Metropolis (1927)
La storia di Metropolis (1927) è innanzitutto quella del travagliato percorso delle numerosi versioni del film succedutesi nel tempo. Tagli, ce(n)sure, bobine
scomparse, ritrovamenti, innesti e recuperi (l’ultimo a Buenos Aires nel 2008,
una copia in 16
mm) che oggi ci permettono di apprezzare il film
nella versione più completa, l’originale così come era stato concepito e
montato da Fritz Lang.
L’innovativa (per l’epoca) potenza visiva delle
immagini, le visionarie architetture futuristiche, che hanno fatto scuola in
tanta fantascienza (Blade Runner, 1982, Brazil, 1985), mantengono immutato il loro fascino.
L’estro registico di Lang emerge nell’uso consapevole del flashback
(la leggenda della Torre di Babele) e del montaggio alternato (l’angoscioso
sogno di Freder mischiato allo spettacolo lussurioso del robot-Maria). Nella
grande padronanza di dissolvenze (il robot che prende
vita, la macchina-Moloch che ingoia gli operai) e suggestive sovraimpressioni
(gli occhi ammaliati, rapiti che quasi toccano il corpo di Brigitte Helm al
ballo dei ricchi). Nelle inquadrature oblique dall’alto dei
grattacieli (in realtà si tratta di modellini cartonati ingigantiti da una
serie di specchi), la vertigine percettiva di Metropolis. Nell’immobilità
frontale che schiaccia gli schiavi nelle riprese della città dei lavoratori. L’alto
e il basso, su e giù, continua discesa e risalita (ritroviamo spesso gli ascensori:
nelle fabbriche, negli appartamenti).
La morale di fondo, pacificazione
e solidarietà fraterna tra individui, suona po’ datata e inattuale, quasi da
operetta di formazione. Le riflessioni sul rapporto uomo-macchina e sul ruolo
della tecnologia nella società dell’avvenire sono invece di grandissimo
impatto: la macchina è viva, pulsante (la macchina-cuore), va nutrita, si ciba
del corpo dell’uomo, del suo lavoro frenetico, va lubrificata con sangue,
sudore, carne umana. Grande importanza assume il tema del tempo. Assoggettare
l’uomo, negargli la libertà, significa rubare il suo tempo, il tempo per la
vita e gli affetti. Joh Fredersen, il signore di Metropolis, è prima di tutto
il padrone del tempo, colui che lo regola e lo scandisce a proprio vantaggio.
L’unico tempo riconosciuto è quello del lavoro, e gli operai altro non fanno se
non muoversi sull’asse del tempo loro imposto (spostano leve e lancette
sull’orologio che segna le dieci ore del turno lavorativo).
Fuori da questo ciclo impazzito
trovano spazio solo i Giardini Eterni, sorta di etereo
paradiso bucolico con tanto di ninfe, e la casa del delirante inventore Rogwan,
quasi una fiabesca e a-temporale dimora dell’orco delle favole (non a caso
descritta come una casa “dimenticata dal tempo”).
Fredersen è anche il padrone
della luce. Produce energia e succhia elettricità dalle profondità della
terra per illuminare la sua Metropolis. Anche a livello figurativo, la luce
gioca un ruolo fondamentale. La fotografia di Karl Freund rimane in bilico tra atmosfere ancora espressioniste
(la grotta in cui Rogwan rapisce Maria, il sogno e i bagliori allucinatori di
Freder) e una messinscena più realista fatta di bianchi e neri contrastati
(il bianco lucente dei Giardini Eterni, dei vestiti di Freder, il volto candido
di Maria, il nero della massa anonima dei lavoratori, le ombre scure che
segnano il viso di Frederson, Rogwan). Maestosa e prorompente la partitura
originale di Gottfried Huppertz nelle sequenze di maggiore afflato epico.
giovedì 28 febbraio 2013
Cogan - Killing them softly (2012) - di Andrew Dominik
Un paesaggio urbano degradato, sporco, prosciugato come un deserto. Un panorama umano ancora più arido, disfatto, vuoto e isolato. Sono scenari, quelli di Cogan - Killing them softly, che illlustrano lo sfaldarsi di ogni possibile contatto umano e affettivo. L’incrinarsi definitivo di qualunque rapporto basato su onore, rispetto reciproco, comprensione, amicizia, fiducia. Sullo sfondo di una crisi che ha fatto a brandelli il tessuto sociale.
Fiducia, volontà e capacità di aprirsi all’altro, agli altri; mettersi d’accordo, stipulare patti e contratti: ecco cosa viene negato in modo incontrovertibile nella periferia suburbana descritta da Andrew Dominik. Nessuno si fida più degli altri. Non ci sono certezze, nessuno offre garanzie. Johnny Amato (il Vincent Curatola dei Soprano), piccolo boss di quartiere, non si fida ad affidare la rapina allo sballatissimo Russell (un perfetto Ben Mendelsohn). Markie Trattman (Ray Liotta), il mafioso padrone della bisca, non gode più della fiducia dei capi. Non ha più credenziali, ha perso credibilità anche se innocente. Il sicario Cogan (Brad Pitt) scopre di non potersi fidare del vecchio partner Mickey (James Gandolfini), e lo fa imprigionare con l’inganno. Mickey stesso si mostra diffidente con Cogan. Sospetta che si porti a letto le sue donne alle sue spalle. Inoltre la moglie lo sta per lasciare, perché non crede più a false promesse. Il criminale Frankie, che tradisce il boss sperando di aver salva la vita, è l’unico a confidarsi con Cogan, e non a caso finisce con una pallottola in testa.
Unico tramite tra le persone sono i soldi. Ogni vincolo, legame o relazione
si base su passaggi e scambi di denaro (“Pagami, l’America non è un paese. E’
solo affari” si dice nel finale del film). Per tutto il resto si mantiene un
distacco, si pone una distanza. Quella che Cogan mette tra se è le vittime che
uccide, per stare lontano dalle emozioni, dal dolore, da quella malinconia “stucchevole”
che lo scombussola di fronte a chi gli implora di risparmiarlo.
La tesi di
fondo (le leggi del mondo criminale equivalenti a quelle del capitalismo più
feroce) è però ripetuta in modo troppo didascalico e poco originale, attraverso le
voci dei dibattiti politici alle soglie dell’elezione di Obama.
E’ invece nelle
scene apparentemente più scarne e banali che Dominik da il meglio di sé,
riuscendo a inquietare e a far passare il desolante messaggio. Si prenda la
sequenza in cui Cogan è a colloquio con Mickey, nella stanza d’albergo in cui
quest’ultimo ha appena fatto sesso con una prostituta. La donna si sta
rivestendo e chiede a Cogan di riallacciarle la cerniera del vestito. Cogan
rifiuta con un secco no, invitandola a rivolgersi al “suo cliente” per chiudere
la zip. Esempio perfetto del meccanismo perverso per cui non si fa davvero più niente
per nessuno, nemmeno il gesto più insignificante, senza che ci siano di mezzo
dei soldi o un tornaconto personale.
Non c’è umanità. La criminalità, come la politica
e la vita, è regolata da un rapporto marcio tra azienda e cliente,
committente ed esecutore, domanda ed offerta. Un sistema che non ammette errori
o indecisioni, e che non esita a perfezionare gli esuberi (gli omicidi) per
recuperare le perdite. La prostituta è l’unica presenza femminile in un
contesto di dominio oppressivo totalmente maschile.
Ma a ben guardare è
tutt’intorno che impera un sistema di prostituzione imperante su scala generale:
il nefasto rapporto clientelare con il dio denaro (Cogan non è altro che una
prostituta di cui si servono i mafiosi). Del resto, la purezza è impossibile,
se anche Thomas Jefferson era uno schiavista, come si dice in un punto. E Cogan cammina impassibile,
seguito in carrellata, a fianco delle scintille di alcuni fuochi d’artificio,
calpestando per sempre le stelle lucenti del Sogno Americano.
Dominik filma i personaggi inchiodandoli alla loro solitudine mortificante. Praticamente assenti campi e controcampi nei dialoghi e nei momenti di
confronto (in macchina, a tavola, in albergo, al bar), che pur costituiscono la
sostanza del film. Non c’è reale comunicazione, ci sta dicendo. Il regista predilige volti in primo piano, inquadrature frontali e laterali alternate alle riprese da dietro dei personaggi. Sempre tratteggiati di
profilo come in un album di foto segnaletiche, quasi senza profondità, schiacciati e appiattiti nel loro isolamento
esistenziale.
Prometheus (2012) - di Ridley Scott
Anno 2093. L’equipaggio della
nave spaziale Prometheus è in viaggio verso un pianeta che potrebbe custodire
il segreto della creazione umana. Due scienziati della spedizione hanno infatti
scoperto, in varie parti del globo, una serie di pitture rupestri, raffiguranti
alcuni misteriosi giganti intenti a indicare una mappa di stelle. Persuasi del
fatto che si tratti di un invito di questi esseri, chiamati “Ingegneri”, ad
essere raggiunti nello spazio, i due si preparano ad un incontro rivelatore, ma
le cose non andranno come previsto...
La grande attesa per l’uscita di Prometheus ha destato curiosità e dubbi:
sarà davvero un prequel di Alien, in grado di
far luce sui misteri lasciati insoluti dal film del ’79? Si tratta di
aspettative in realtà fuorvianti. Prometheus
non è il preludio ad Alien, quanto
una sua variazione sul tema (arrivo sul pianeta sconosciuto, scontro con
l’alieno, tentativo di fuga), una ramificazione a partire da una radice comune. Un prodotto derivato dalla stessa sostanza. Alla base di tutto sta infatti un
fattore biologico, un legame genetico. Ecco allora il prologo con i filamenti del
Dna dell’alieno, che si spezzano e si sciolgono nelle profondità dell’acqua, originando
le prime cellule batteriche da cui prenderà forma la vita sulla Terra (“Tutte
le grandi cose hanno piccoli inizi” dirà l’androide David). L’alieno si
disintegra ingerendo un misterioso liquido nero: siamo forse il risultato di
una reazione chimica imprevista, un rigetto vomitato fuori?
Ridley Scott, o il
moderno Prometeo. Il regista torna a riflettere sulla formazione del diverso a
partire dall’identico, sulla produzione del differente a partire dall’uguale. Una
discendenza evolutiva. Un processo di generazione e filiazione (le scene di
parto alieno) che riflette sulle contradditorie dinamiche tra creatori e creati,
tra padri e figli (“Tutti vogliono veder morire i genitori” spiega
l’androide). Così gli Ingegneri forgiano la specie umana (come il Prometeo del
mito greco la plasmò dal fango) per poi tentare di sterminarla. L’uomo
costruisce esseri sintetici posti sotto il suo controllo, ma di cui presto diventa
vittima: l’androide David penetra nei sogni e nei ricordi altrui, sperimenta
mutazioni sul corpo umano. Ne nasce un contagio, una regressione, un virus che
colpisce significativamente nel campo del visibile (l’immagine degli occhi arrossati,
liquidi e malati dello scienziato). Tutto ciò che appare estraneo, radicalmente
ai margini, si scopre essere parte integrante della nostra realtà, in un gioco sistematico
di ricongiungimenti e sovrapposizioni (il codice genetico di umani e alieni che
corrisponde perfettamente, le incisioni di epoche, culture, popoli diversi che
rappresentano la stessa mappa stellare).
Buon ritmo e suggestive
invenzioni visive, con il 3D che funziona a dovere nel modellare ologrammi e
futuristiche mappature virtuali. Scott si muove agevolmente tra gli spazi
chiusi della nave spaziale, dove dominano il bianco delle pareti e il giallo
soffuso delle luci, e l’ambiente esterno, la piramide aliena, con le tinte
bluastre delle sue cripte e cunicoli (la catacomba degli Ingegneri). La
tensione serpeggia costante, anche se siamo lontani dalla suspense in agguato
ad ogni angolo e dal terrore claustrofobico di Alien. Qualche enigma viene svelato (l’identità dello Space Jockey fossilizzato al comando
della navetta in Alien), ma bisognerà
aspettare un sequel, o forse più di
uno, per riempire i buchi di una sceneggiatura spesso troppo debole e frettolosa.
lunedì 25 febbraio 2013
sabato 9 febbraio 2013
mercoledì 6 febbraio 2013
lunedì 21 gennaio 2013
Django Unchained (2012)
Un dato significativo, innanzitutto.
Django Unchained è il primo film di Tarantino dentro il quale il cinema, come mezzo tecnologico, non esiste. Non c’è e non dovrebbe esserci. Perché ancora
non è stato inventato (siamo nel 1858, alla vigilia della Guerra Civile
americana). Eppure, in qualche modo, il cinema è lì ma non si vede, come la D di
Django: c’è ma resta muta, silenziosa
(e Franco Nero ben se lo ricorda).
Non è difficile immaginare lo scoppiettante duo Django- Dr. King Schultz trapiantato ai giorni nostri: starebbero lì, seduti alla tavola calda, a sproloquiare su Like A Virgin di Madonna come le iene di Reservoir Dogs. O a discutere di massaggi ai piedi e hamburger di McDonalds alla stregua dei killer di Pulp Fiction. A elucubrare su Clark Kent e Superman assieme a Bill Gunn. O ancora a scambiare opinioni su Pabst, Fassbinder e l’espressionismo tedesco come i militari cinefili di Bastardi senza Gloria.
Non è difficile immaginare lo scoppiettante duo Django- Dr. King Schultz trapiantato ai giorni nostri: starebbero lì, seduti alla tavola calda, a sproloquiare su Like A Virgin di Madonna come le iene di Reservoir Dogs. O a discutere di massaggi ai piedi e hamburger di McDonalds alla stregua dei killer di Pulp Fiction. A elucubrare su Clark Kent e Superman assieme a Bill Gunn. O ancora a scambiare opinioni su Pabst, Fassbinder e l’espressionismo tedesco come i militari cinefili di Bastardi senza Gloria.
Quando però si tratta di cinema,
del cinema, Tarantino non ammette gli anacronismi che riserva alla Storia (centrali
in Inglourious Basterds). Nel West di
Django Unchained non c’è ancora
spazio per i cortocircuiti indotti dalle potenzialità del cinematografo. Non è
ancora tempo per la mercificazione culturale di massa.
E allora, l’immaginario,
si fa con quel che c’è. Antiche leggende teutoniche, impavidi eroi
presi a prestito dalla mitologia (Sigfrido, Brunilde e il drago): è questa la cultura-pop a
disposizione, a cui Django si appassiona. Guardare, per credere, come si
inginocchia in silenzio davanti al fuoco per seguire il racconto di Schultz. Quasi
un bambino rapito all’ascolto della favola. Sempre curioso di sapere cosa
succede dopo (E poi…e poi?). Perché quella storia, di schiavitù, amore,
liberazione
e vendetta,
è la sua storia, il dramma di un intero popolo sottomesso.
Divisione fra razze ma anche scontro di culture, in Django Unchained. L’edificante epica di matrice germanica e la ricercatezza europea (il parlare forbito di King Schultz) da una parte. L’exploitation sanguinosa e gratuita delle rozze americanate di serie B dall’altra.
E qui Tarantino quasi fa
autocritica, con la sequenza dello schiavo sbranato vivo dai cani di Calvin
Candie. King Schultz è turbato dalla scena, vorrebbe salvare il malcapitato. Mentre
Django resta dolorosamente a contemplare, impassibile. “Io sono più abituato
agli americani”, spiega riflettendo la piena coscienza da parte di Tarantino
del turpe passato di violenza degli USA, a dispetto di ogni accusa mossagli contro.
Tarantino muove
verso nuove influenze e nuove radici. Letterarie, ad esempio, citando Alexandre
Dumas (1802-1870) e I tre moschettieri. Modesto scrittore di romanzi per il pubblico di
massa, Dumas. Autore pop, attento a mode e
gusti del suo tempo, certo non poteva sfuggire al regista. E allora, l’unione
fa la forza. Tutti per uno, uno per tutti.
Django il moschettiere si unisce alle forze del re-King Schultz per
sfidare il perfido Candie-Richelieu e ricongiungersi all’amata. Il riferimento
a Dumas svela inoltre la barbara inciviltà e l’ignoranza del dispotismo
“bianco”: il giocondo Monsieur Candie (così vuol essere chiamato, ma non sa parlare francese) si pavoneggia raffinato intellettuale e chiama il suo
schiavo D’Artagnan, non
sapendo che il romanzo a cui appartiene il personaggio fu scritto proprio da uno di quei neri che disprezza.
Il razzismo,
per Tarantino, non può che essere, prima di tutto, diffusa incultura: dei testi,
delle storie, della finzione e dell’immaginario. Ma anche dello scientismo
illuminato, con le teorie di Newton e Galileo distorte in pregiudizio
razziale: la superiorità biologica, cerebrale (si veda la scena del teschio), del
wasp
americano sul nigger votato al
servilismo.
Intolleranza visibile anche nella patetica sensibilità artistica di
Candie (la scultura raffigurante i lottatori del Mandingo) e nella sua radicale
mancanza di senso storico. Emblematico il kitsch da basso impero decadente che
adorna il locale Cleopatra Club, con la sala “Giulio Cesare” e la testa della regina d’Egitto esposta su un mobile. D’altronde, è lo stesso Candie,
scoperto l’inganno ai suoi danni, a rivelare di aver "covato una serpe” in
seno.
Personaggio inafferrabile,
Django. Ambiguo, difficile da identificare (“Chi è quel negro?” si
chiedono i prigionieri vedendolo fuggire nella clip che segue i titoli di
coda). Spesso ritratto fuori fuoco, in perenne transito
(l’insistenza sulle inquadrature di spostamenti e viaggi a cavallo). Impreciso nella caratterizzazione, volutamente appena abbozzato (“Posso scegliermi il costume da solo?” si
domanda).
Si muove come
un agile pistolero di Sergio Leone tra zommate improvvise, tempi dilatati e
atmosfere sospese (magistrale la strategia della tensione crescente durante la
cena a casa Candie, che rievoca quella della taverna francese di Bastardi senza gloria). Tra spari
al rallentatore e fiotti di sangue che affrescano le pareti. Prima
dell’inevitabile, catartica, esplosione finale.
sabato 19 gennaio 2013
Frankenweenie (2012)
Re-animation: il Burton ricostruito di Frankenweenie
Victor Frankenstein è un
ombroso ragazzino con un forte interesse per la scienza, che passa le giornate
in solitudine girando film in super8 in compagnia dell’inseparabile cagnolino
Sparky. Quando l’animale muore investito da una macchina, Victor cade nello
sconforto più totale: ha perso l’unico, amatissimo amico. Seguendo un bizzarro
esperimento scolastico, riuscirà però a riportare in vita Sparky,
all’insaputa di tutti. Ora, il cagnolino dovrà restare nascosto…
Il tempo della comparsa del logo
Disney sullo schermo e lo sfondo si fa grigio, cinereo, plumbeo. Il tono allegro
del jingle di apertura sfocia nelle sonorità lugubri della partitura di Danny Elfman.
Ancora una volta, benvenuti a Burtonland.
Il teatro dell’azione sarà New Holland, sonnolenta cittadina
carica di influenze olandesi: i mulini
(figure spesso presenti in Burton, già viste ne Il
mistero di Sleepy Hollow, 1999, e in Alice
in Wonderland, 2010), i fiori rigogliosi e perfettamente curati dei
giardini, le celebrazioni imminenti per il “Dutch day”, la ragazzina
Elsa che porta il cognome del dottor Van Helsing di Dracula.
Il contesto di New Holland è
quello di una bolla spazio-temporale in cui tutto è fermo, come sotto la cupola
di una palla di vetro in miniatura. Proprio come nella cornice favolistica di Edward mani di forbice (1990). Se là
scendevano fiocchi di neve, qui, sul nuovo, tetro universo burtoniano, si
infrangono regolarmente pioggia, vento, tuoni e fulmini.
La veduta panoramica della città,
con il mulino e il cartellone “New Holland” (identico alla monumentale scritta
bianca di “Hollywood”), che dall’alto della collinetta in lontananza sovrastano
lo scenario suburbano di ville e giardinetti, è la perfetta immagine-simbolo di
un paesaggio geografico, sociale e culturale forzatamente fagocitato da logiche
e modelli fittizi, legati a un immaginario buonista e rassicurante
tipico della provincia americana (da sempre nel mirino di Burton).
New Holland va così ad aggiungersi
alla galleria di luoghi burtoniani dove i gretti abitanti vivono in un conformismo
ottuso che spinge verso la mediocrità. Verso la repressione di ogni
sentimento autentico, sensibilità particolare, stimolo creativo. Non appena questi siano percepiti come strani, incongrui, devianti rispetto alla sicurezza
e alla banalità della norma.
La curiosità, la vivacità
intellettuale, la sete di conoscenza del provetto scienziato Victor sono mal
tollerate dagli ingessati benpensanti di New Holland, che si rifugiano in una
piatta monotonia e in un oscurantismo consolatorio. “Sapere
troppo non fa bene” ammonisce la flaccida e prepotente maestra di educazione
fisica della scuola di Victor, promossa a insegnare Scienze in tuta da
ginnastica. In un edificio scolastico che ricorda le architetture del razionalismo
fascista (sintomo di tutta la radicale sfiducia che Burton continua a
nutrire verso le istituzioni educative).
Lo stralunato ma sincero Mr.
Rzykruski viene allontanato soltanto perché giudicato troppo eccentrico (non
viene nemmeno chiamato per nome dal sindaco, ma spregiativamente indicato
come “la minaccia”).
Grazie a lui, i bambini cominciano a pensare con la
propria testa, a fare domande astruse, inconsuete, e questo terrorizza i loro scialbi
genitori.
Come spiega rassegnato lo stesso Rzykruski a Victor “la gente vuole
quello che la scienza gli dà, non le domande che la scienza pone”,
testimoniando tutta l’egoista meschinità dei cittadini di New Holland.
Lo stesso padre di Victor, pur comprensivo e premuroso con il figlio, lo istruisce al
compromesso (incoraggiandolo ad uscire dalla soffitta per dedicarsi al
baseball come gli altri ragazzi). A sacrificare se
stesso e le sue doti al giudizio superficiale della massa. Ma in questo modo,
dice Victor, “nessuno è veramente felice”.
Anche i suoi compagni alzano il
velo sull’ipocrisia. Come il grassoccio Bob, quando, leggendo le istruzioni
sulla scatola di alcune scimmiette-giocattolo mutate in mostri, rivela
inconsapevolmente la tragica verità sul mortificante panorama della vita di New
Holland, con i suoi abitanti assimilati a pazzi animaletti urlanti: “Sulla
scatola c’è scritto che vivono felici nel loro regno, sempre con un sorriso. Ma
non è così”.
Victor e Rzykruski sono dunque i
soli a sancire l’importanza della sensibilità individuale.
A incarnare la figura dell’artista-scienziato illuminato, in
lotta contro il bieco scetticismo e la diffidenza arrogante (il maestro bolla
come “stupidi e ignoranti” tutti i genitori presenti all’assemblea scolastica).
Fede nella
ragione (del cervello e del cuore) e nella bontà del progresso (intimo e
umanista più che sociale e tecnologico), contro la spersonalizzante omologazione
generale. Una diversità dello sguardo di cui Burton si fa ancora una volta alfiere
(“Vedere è sapere” certifica Edgar, il goffo e ingobbito compagno di Victor che
ricorda l’Igor di Frankenstein Junior,
1974).
In questo senso, il finale è ottimistico, con il mea culpa dei grandi
(“A volte gli adulti non sanno di cosa parlano” ammette il padre di Victor).
Dunque, si diceva, nessuna spinta
all’inventiva personale, alla trasgressione della norma e al cambiamento. È lo stesso processo sperimentato
in prima persona dal giovane Burton animatore alla Disney, costretto a
smorzare il suo impeto visionario incanalandolo nei rigidi standard imposti
dall’azienda.
Ecco allora che Burton,
attraverso la messa in scena finzionale (ambientazione, personaggi e plot),
opera una riflessione metatestuale sulla natura e sul travagliato
percorso di Frankenweenie inteso
come oggetto filmico, come prodotto audiovisivo.
La vicenda di
Sparky che muore e ritorna in vita, infatti, si presta oggi ad essere letta
come la storia della scomparsa e dell’occultamento
di un testo (il Frankenweenie mediometraggio del 1984) e del suo
recupero, della sua rinnovata visibilità (il
Frankenweenie lungometraggio del 2012). Tutto ciò è
reso possibile da un curioso parallelo, con un meccanismo di identificazione
tra la personalità artistica di Burton e
il personaggio di Sparky.
Il Burton
animatore alla Disney, infatti, può essere visto come una sorta di cane sciolto che
scorrazza liberamente e disordinatamente (come fa Sparky) tra le macabre e
sconfinate lande della sua immaginazione. Con un fortissimo legame
emotivo, puro ed autentico, quasi ingenuo, con le bizzarre creature
che incontra lungo la strada (come fa il fedele Sparky con il padrone Victor e
la barboncina Persefone) e che la sua matita cattura.
Un entusiasmo e una
frenesia a cui è impossibile porre freno, mettere la museruola, legare alla
catena (proprio come Sparky, sempre pronto a spezzare le corde che lo cingono
per correre verso il gioco e la libertà).
Un’esplosione
di vitalità creativa che tuttavia viene annullata, negata, frustrata (Sparky
muore investito da una macchina, Burton si deprime vedendo osteggiato e censurato il suo lavoro su Frankenweenie).
Solo successivamente viene recuperata, ri-animata, resuscitata. Il
Frankenweenie di Burton ritorna così in vita finalmente riassemblato e ricucito
(come gli organi e il pelo di Sparky) nella sua versione più compiuta, nel
pieno della sua essenza. Alla fine del percorso, entrambi si vedono
pubblicamente accettati, il loro merito riconosciuto (il cagnolino dai
cittadini di New Holland, Burton dai produttori-spettatori). Pur restando,
inevitabilmente, dei diversi, degli strani, bizzosi e bizzarri freaks.
In questa
prospettiva, è il cagnolino Sparky, e non il solitario Victor (pur modellato
sulle ossessioni del regista bambino), il vero alter ego di Burton all’interno della narrazione.
Interessantissimo il pre-finale,
con la città che diventa un gigantesco luna-park. Un’impazzita giostra
itinerante (ancora la visione di Burton dei sobborghi americani come
stranianti caricature da parco a tema) in balia di icone cinematografiche
tra le più disparate (al cinema locale si proietta Bambi, c’è un piccolo criceto-mummia,
il mostro-tartaruga
gigante che sembra Godzilla e si chiama Shelley come la Mary del
romanzo Frankenstein, le voraci
scimmiette strepitanti che ricordano i Gremlins,
l’indifeso gatto Baffino che si trasforma in orripilante pipistrello-mannaro).
Spuntano anche riferimenti alla produzione letteraria di Burton, con il
personaggio della stramba e catatonica ragazzina dai grandi occhi che è uguale
alla Staring girl (La bambina che
fissava) presente nella raccolta di poesie Morte malinconica del bambino
Ostrica (The Melancholy Death of
Oyster Boy & Other Stories, 1997).
È il caos prodotto dalla
liberazione dell’immaginazione, dallo sconfinamento della finzione nella
realtà della storia, che arriva a soverchiare una volta per tutte la finta
armonia e la cordialità di facciata della popolazione di New Holland. Con la
materializzazione concreta dei fantasmi in pellicola (il corto “Monsters from
Beyond”) che Victor filma (rigorosamente in stop motion) e nell’incipit
mostra in salotto ai genitori, con Sparky dinosauro preistorico che combatte
uno pterodattilo in giardino, tra bambole e soldatini (l’artigianalità
dell’approccio cinematografico sempre cara a Burton).
La visione domestica sul
vecchio televisore a tubo catodico ha sempre un posto privilegiato, nei ricordi
nostalgici del regista: si scorge Christopher Lee in Dracula il vampiro (1958), in una bellissima sequenza in cui la
magniloquente colonna sonora del film di Terence Fisher che giunge dallo
schermo (i genitori di Victor stanno guardando il film seduti sul divano) fa da
contrappunto ai movimenti del ragazzino, rientrato in casa di soppiatto, intento a
non farsi scoprire con il cadavere di Sparky trafugato al cimitero. In
un’ideale sovrapposizione tra la materia filmica che ha plasmato l’immaginazione
del Burton bambino e la sua ri-attualizzazione nel presente di
Frankenweenie.
Perché è questa l’operazione di Burton (comunque di pregevole fattura): il regista non innova più radicalmente ma ripropone,
rimescola,
riallestisce
in una nuova (?) storia temi, personaggi e atmosfere che sono ormai divenuti un
brand, il suo inconfondibile marchio
di fabbrica.
giovedì 17 gennaio 2013
Ho perso le parole...
The Words
di Brian Klugman e Lee Sternthal
Data di uscita italiana: 21 settembre 2012
Parole per raccontare, per
condividere una storia. Storie vere o inventate. Parole che sgorgano spontanee
dal dolore, una marea inarrestabile che inonda la pagina. Parole rubate o
ritrovate. Frasi di una storia sconosciuta, ricopiate per il piacere sublime di
sentire parole scorrere attraverso le dita. Toccare le parole. Parole che
“rovinano tutto”, che guastano vite, persone, amori. La seduzione folle della
scrittura. Perché delle parole ci si può innamorare a tal punto da farci
dimenticare chi ce le ha ispirate, lasciando solo rimorsi e un manoscritto
ingiallito al posto del fuoco di una passione ardente, perduta per sempre.
Sono tutte queste le words che segnano l’esordio
cinematografico di Brian Klugman e Lee Sternthal. Al centro c’è il processo
della scrittura, il potere di raccontare storie, il ruolo dello storytelling. In un intreccio di
narratori e narratari, autori e lettori, creatori (falsi) e personaggi (veri). C’è
chi scrive per vocazione. Chi per
mestiere, come Rory Jansen, che tira a campare con gli assegni paterni in
attesa di scrivere il libro della vita. C’è invece che scrive per cancellare il
dolore, riversando i traumi sulla pagina (il personaggio di Jeremy Irons da
giovane).
Le parole erompono da dentro, si fissano da sole sulla pagina, senza
sforzo, senza quasi accorgersene, velocissime. In un flusso torrenziale
diretto, sincero, vero, profondo, e per questo unico. Per quale motivo e per
chi scrive invece Clay Hammond? Per il successo, per il piacere del racconto,
di giocare con la finzione? Ha solamente inventato la storia di un plagio, di
un furto, o si tratta del racconto della sua vita? Al pubblico del reading sta
forse nascondendo la verità nel momento stesso in cui rivela esplicitamente la
sua menzogna?
La forza e l’ambiguità della parola. Confini incerti poichè, come
dice Clay, “realtà e finzione sono vicine, ma non si toccano mai”. Piuttosto si
sovrappongono, nell’intreccio di piani narrativi, voci e flashback che
caratterizzano il plot. Un groviglio
intrigante in cui però si finisce presto per annoiarsi. Dopo le buone premesse
della prima parte, il film si arena in una sorta di “blocco dello scrittore”
creativo dei due registi-sceneggiatori, che non sanno più dove andare a parare.
Il colpo di scena rivelatorio a cui si prepara lo spettatore va a vuoto.
Più di
tutto viene compromessa una riflessione sull’arte del narrare, di trasfigurare
le mancanze della vita in racconto, che poteva risultare originale, ma che
viene invece dispersa in una sequela confusa di dialoghi, confessioni,
confronti tra i personaggi, logorante come la lettura del classico libro-mattone.
Interessante solo in parte, un
film che sarà presto dimenticato sullo scaffale come un vecchio libro
polveroso.
mercoledì 16 gennaio 2013
(S)cene indigeribili
di
William Friedkin
Data di uscita italiana: 11 ottobre 2012
Un paesino
della provincia texana. Lo sbandato Chris è un giovane spacciatore assediato
dai debiti. D’accordo col padre e la matrigna, decide di assassinare la madre
per intascare una grossa somma dall’assicurazione. Assolda così il poliziotto Joe Cooper,
nel tempo libero infallibile killer. La presenza dell’imprevedibile sorella di
Chris, Dottie, e il sorgere di alcuni imprevisti, complicheranno la situazione.
Incipit. Schermo nero. Lo scatto
ripetuto di un accendino. Uno sparo secco rompe il silenzio. L’eco si confonde
nel fragore di un tuono. Rumori che, dietro una calma apparente, ovattata,
nascondono scintille pericolose. Fiammate maligne pronte a divampare
all’improvviso. Colpi, scatti e lampi di violenza sul punto di esplodere da un
momento all’altro.
Sono questi i movimenti che attraversano tutto il film. Il
regista catapulta lo spettatore al centro di miserie umane ed efferatezze
brutali senza preavviso, spiazzandolo di colpo, all’interno di un vortice impazzito.
Friedkin gioca a fare il piromane
in un film radicalmente incendiario. Facendo a pezzi tutto e
tutti, senza risparmiare nessuno. L’attimo prima c’è una famiglia e il suo
strano ospite, seduti per la cena. L’attimo dopo la cucina diventa un ribollire
di sangue, urla, pistole, coltelli. Scene da rivoltare lo stomaco si
direbbe, visto che siamo a tavola. Viene fatta a fette la società americana. Si
scardinano i valori buonisti, l’ipocrisia che cela un feroce cannibalismo, per
cui ci si sbrana l’un l’altro anche, anzi soprattutto, tra consanguinei.
Friedkin infonde alle immagini un’inquietudine
morbosa, nauseante. Innesca un perverso meccanismo di attrazione/repulsione,
in scene che in mano ad altri registi sarebbero risultate goffe (il coito orale
mimato con la coscia di pollo, Killer Joe che si struscia sulla ragazzina).
Le sequenze cominciano con le buone
maniere. Si procede con lentezza, ritmo
sospeso, atmosfere distese e rilassate, a lume di candela. Poi, di colpo,
partono le schegge. Si ribalta volgarmente il “galateo” culinario e civile (Joe
rovescia la tavola, fracassa il televisore), cinematografico (si passa dal
piano sequenza al sezionamento frenetico). Un incedere di attese spasmodiche e di
tensione paranoica. Elementi tipici di Friedkin fin da L’esorcista (1973), e visti all’opera anche nel claustrofobico Bug (2006).
Vengono portate alle estreme
conseguenze le nefandezze della crisi economica. In fondo si parla
di una famiglia alle prese con un debito enorme che scopre di non poter saldare.
Se non al prezzo salatissimo della propria distruzione ad opera di Joe, che per
i suoi servigi esige un pagamento in natura, una caparra umana (la giovane Dottie).
Altrimenti si riprenderà tutto con gli interessi, con una carneficina,
chiedendo un tributo di sangue.
Soldi sporchi e corpi lividi,
dilaniati, carbonizzati. Joe è paradossalmente l’unico personaggio che più
volte fa richiami all’ordine, all’equilibrio, all’educazione e al rispetto dei
patti, in un tessuto sociale sfibrato e irrimediabilmente fuori controllo. Sembra
il solo a conoscere le leggi della vita, del mercato. Cita il motto latino Caveat
Emptor: attenzione agli acquisti incauti, accertatevi sempre di cosa state
comprando. Con questo personaggio, un po’ cowboy senza passato e un po’ Stuntman
Mike (Grindhouse di Tarantino, 2007),
Friedkin giunge al culmine dello straniamento che segna l’intero film.
Viene ridicolizzato il rituale della
preghiera a tavola. Joe diventa il sinistro capofamiglia, lo psicotico
padre-padrone il cui unico, folle desiderio, è quello di “mangiare tutti
insieme, come una vera famiglia”. La cena è servita: la famiglia americana in
putrefazione.
Cast di altissimo livello, fra
cui spicca la spigliatissima Juno Temple e un Matthew Mc Conaughey formidabile,
in una prova finalmente convincente dopo troppo commedie all’acqua di rose.
Un capitolo e un modo di fare cinema
assolutamente imperdibili.
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