mercoledì 30 ottobre 2013

La stagione dei Grandi (ritorni)



IL GRANDE GATSBY (The Great Gatsby, 2013) di Baz Luhrmann



Le scorrerie sfrenate della jazz age fitzgeraldiana, ne Il Grande Gatsby di Baz Luhrmann diventano racconti dell’età del rap. Con le rime di Jay-Z, il montaggio sbalzante e sincopato. Le folli corse in auto. Le vertigini visive della m.d.p. sui grattacieli della City e in volo sulle tenute principesche di Long Island. 
Una scatenata orgia visiva. Cine-festa mobile di sonorità synth-pop e immagini sgargianti fino al parossismo caro al regista. Sbornia alcolica da stordire i più rigorosi puristi del romanzo, anche peggio dei coloratissimi fluo-drink serviti a casa Gatsby. 
Gli spettatori-letterati imbucati allo sfavillante allestimento scenico come gli ospiti ai party di Gatsby. Entrambi rapiti dal pomposo sfarzo della confezione. A guardarsi intorno, cercando tracce del saccheggio del romanzo (i primi). O della corruzione di un’identità indecifrabile (i secondi). Il cui segreto non nasconde nulla di meschino. Solo incorruttibile purezza e fedeltà incrollabile a una lucida illusione, meticolosamente coltivata. Vitale e tragica ossessione a cui Luhrmann dà via via maggior respiro (la delicatezza poetica nell’incontro di Gatsby e Daisy). 
Restituendo la vena malinconica sul tramonto di un’era. La vacuità e il disfacimento della società americana descritti nel testo d’origine. Naturalmente filtrato attraverso lo sguardo lunare e stupefatto del Nick Carraway di Tobey Maguire. Osservatore distaccato e abbagliato testimone “oculare”. Dentro e fuori dal racconto al tempo stesso. Anche visivamente. Quando dall’interno dell’hotel rimira se stesso all’angolo della strada. Incrociando nel suo doppelgganger lo sguardo dello “spettatore casuale” intento a contemplare la “parte di segreto umano” sprigionata dalle finestre illuminate. Non più solo voce narrante. Ma viva incarnazione del “grande romanzo americano” (così lo apostrofa Tom Buchanan). Vero creatore della storia battuta a macchina. Di cui si appropria apponendoci la firma. Suggellando il titolo del manoscritto (“Gatsby”) con quelle due parole aggiunte a mano (“The Great”). Vergando la pagina filmica con i passi del romanzo a scorrere fugaci sullo schermo, prima di sbriciolarsi come cenere. 
La scrittura come riattivazione del ricordo e prezioso recupero della memoria. Unico rimedio al pericoloso riaffacciarsi di antichi demoni. E’ la cura prescritta dallo psichiatra allo smorto Nick Carraway in treatment, recluso in clinica, depresso e alcolizzato (invenzione assente nel romanzo). Luhrmann, con una personalissima ri(scrittura) del classico, si affida a questo personaggio per esorcizzare gli incubi post-Grande depressione che, tristemente, sono gli stessi di oggi: la crisi deflagrante e l’esplosione della bolla finanziaria. Il degrado umano e morale, la solitudine dell’individuo. 
Alla ricerca dell’unica catarsi possibile, quella offerta dalla vivacità rilucente del prodotto artistico. Almeno al cinema, illusione plausibile e realizzata (?), al contrario di quella di Gatsby, c’è speranza di tornare a ruggire.


LA GRANDE BELLEZZA (2013) di Paolo Sorrentino


“A 65 anni, non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare” è il mantra di Jep Gambardella. Paolo Sorrentino non ci ha mai nemmeno provato a compromettersi con storie in cui non credesse fermamente. Con La grande bellezza conferma l’originalità di uno sguardo/squarcio sul visibile che evade la dicotomia visivo/narrativo. 
Basterebbe l’incipit. L’abbraccio volante su luoghi e figure di Roma non in montaggio descrittivo, alla Woody Allen. Al massimo "decrittativo". Posato su qualcosa per decifrare vissuti e contraddizioni della Città Eterna. Il placido silenzio marmoreo di statue e palazzoni. L’armonioso canto lirico e le becere imprecazioni di un autista. Lo spiegone routinario della guida e frotte di turisti orientali. Uno si defila dal gruppo, colpito da uno scorcio inatteso nel panorama. Una rivelazione improvvisa. La grande bellezza che lo folgora per un attimo e subito gli è fatale, inafferrabile e irraccontabile come il nulla eterno in cui sguazzano i personaggi. 
Poi, l’urlo di una donna sparato in faccia allo spettatore, ed eccoci dentro il rumoroso cicaleggio notturno della mondanità. Lassù, nel cielo artificiale di questa funerea e carnascialesca Roma da bere, il titolo del film campeggia in aria come uno spotlight. La festa comincia, tutti salgono in carrozza. L’anfitrione Jep, consumato viveur alla ricerca del tempo perduto, vistoso dandy dall’incorreggibile parlata cadenzata. Centometrista della vita che in un lampo velocissimo ha bruciato fama, amicizie e amori. Uno scatto fulminante, poi più nulla. Sdraiato a tirare il fiatone in terrazza, tra una boccata di fumo e l’altra. (“Perché non hai più scritto?”. “Sono uscito troppo la sera”). Il drammaturgo alla ricerca di versi e piacere dannunziani (Verdone), ostinatamente votato a una musa cialtrona che neanche lo calcola. L’ex soubrette televisiva oversize e cocainomane. 
Ricchi di professione, scrittrici-portaborse sinistrate, aristocratiche radical chic. Nobili a noleggio e anziane principesse annoiate al tavolo delle carte. Tronfi collezionisti di opere kitsch e pacchianerie di pseudo-artisti da salotto. Arte povera e umanità poverissima. Prelati che sorseggiano champagne in ristoranti alla moda e giovani novizie in coda per un’iniezione di botolino. Il pedante e sussiegoso cardinal Bellucci (Herlitzka), appassionato di culinaria geloso di attenzioni, che dispensa ricette invece di concedere udienza spirituale. 
Tutti ugualmente disperati, cui non resta che farsi compagnia e prendersi un po’ in giro, prima che cali il sipario sullo “squallore disgraziato e l'uomo miserabile”. Sorrentino scalfisce, profana la sacralità dell’icona (religiosa, cinematografica) dissacrando con levità, senza cattiverie, rabbia indignata né compiacimento. Soltanto rapito, curioso, amareggiato dalla varietà di quest’umanità stanca, sfibrata e sudaticcia che scimmiotta trenini “belli perché non vanno da nessuna parte”.

giovedì 11 aprile 2013

Il nuovo film di Andrew Niccol

The Host

IL cavaliere oscuro - Il ritorno




“La resa dei conti di Gotham” è arrivata: grazie a Bane (Tom Hardy), il nuovo villain di The Dark Knight Rises. Il mercenario-terrorista, il falso rivoluzionario che finge di sovvertire le gerarchie sociali (i poveri alla ribalta, i ricchi a mangiare la polvere) per il sadico piacere di instillare speranza nel popolo. Prima di ricacciarlo senza appello nella disperazione.

La fine è segnata: una bomba nucleare è in procinto di esplodere. La distruzione totale si avvicina. E Batman? Lo ritroviamo recluso nel suo maniero. Un pensionato in vestaglia che si trascina col bastone, isolato dal mondo (uno smunto e anchilosato Christian Bale). Saranno un giovane poliziotto, Blake (Joseph Gordon-Levitt), orfano come Wayne, e il precipitare degli eventi, a convincerlo a tornare in azione. 

Per affrontare Bane e sventare la minaccia di un ancor più misterioso nemico celato nell’ombra. Nel terzo capitolo della saga sul pipistrello, Christopher Nolan si spinge in profondità. Approda all’ultimo livello (come nei labirinti onirici di Inception, 2010) della narrazione densa, centrifuga e pluristratificata che denota il suo cinema. 

Il prologo è mozzafiato. Tornano gli inseguimenti adrenalinici per le strade di Gotham, con il nuovissimo bat-wing che vola cannoneggiando tra i grattacieli. Ritmi frenetici alternati a spezzoni più introspettivi. Atmosfere cupe e fatalistiche da tragedia imminente. Stemperate però dal consueto e irresistibile humour di Alfred (Michael Caine) e di Lucius Fox (Morgan Freeman). Spicca il fascino felino di Anne Hathaway nei panni di Catwoman/Selina Kyle. La gatta ladra, personaggio che vuole azzerare la sua identità, con uno smacchiatore che cancelli i suoi precedenti dalle banche dati. Forse invidia la libertà auto-generativa, la capacità di trasfigurazione simbolica di Bane, che può riscrivere a piacere la propria storia tramite narrazioni (la leggenda della fuga dal pozzo). Per lei, invece, “è impossibile ricominciare”. Nolan gestisce la corposa sceneggiatura con abilità, senza perdere il filo tra presente e passato, tra veri e falsi flashback, tra dimensione intima e destini globali. 


Accanto al pregevole intrattenimento di qualità, le metafore sull’incubo sociale e urbano degli anni Duemila sono decisamente incisive. Bane in una scena fa irruzione nella Borsa-valori, crivellata di colpi: è il collasso della speculazione finanziaria. La rivincita del popolo (Bane è travestito da fattorino, i suoi scagnozzi mimetizzati tra lustrascarpe e uomini delle pulizie), defraudato di beni e denaro dai crack della crisi economica. La massa che si ribella agli gli squali-manager (il set newyorkese del film viveva a stretto contatto con le proteste di Occupy Wall Street).“Questa è una Borsa-valori, non ci sono soldi da rubare” tenta di spiegare un impaurito broker.“Davvero? E allora perché siete qui?” accusa Bane. Conscio del nefasto potere del Dio denaro, ormai entità invisibile, smaterializzata. Già il Joker in Il cavaliere oscuro (“The Dark Knight”, 2008) rubava banconote al solo scopo di ammucchiarle e darle alle fiamme (la svalutazione del denaro come bene reale, tangibile, era già tematizzata). 

Bane va oltre. È il ladro dell’immateriale, si appropria di flussi di dati, di titolarità e identità altrui (le impronte di Wayne sottratte per mandarlo in rovina). Annulla le istituzioni: si installa nel Municipio di Gotham, baluardo di legge e ordine, e ne rovescia il senso, inscenando grotteschi processi-farsa ai ricchi della città. Vittime del suo giustizialismo sommario e sanguinario (è forse la deriva del sistema-giustizia in America?). Mina letteralmente alla base il Sistema e il suo luogo cardine, la metropoli. Con le colate di cemento cariche di esplosivo (sintomo di urbanizzazione incontrollata), che spazzano via grattacieli, strade, ponti di Gotham. E vuole la sua rivincita su Batman. 

Per Bane, Bruce Wayne è il simbolo della società dell’opulenza che deve essere annientata. Pertanto lo getta, per contrappasso, in un lurido pozzo-prigione. Facendone il simbolo di benessere, ricchezza, potere decaduti. In più, estromette Batman dal terreno dell’oscurità. Rivendicandola come ambito simbolico di sua esclusiva pertinenza. Al contrario di Wayne che, nato negli agi, ci si è immerso solo successivamente (“Tu hai solo adottato le tenebre. Io ci sono nato”). 

Nolan prosegue nel campionario di icone di sicurezza e protezione mandate in frantumi: dopo il camion dei pompieri incendiato e l’ospedale fatti saltare in aria da Joker in The Dark Knight, è la volta del campo di football, tempio americano per eccellenza, che si squaglia aprendosi in una spaventosa voragine. I vigilantes sono assenti, impotenti (l’intera forza di polizia viene intrappolata con l’inganno nelle fogne). 

Per fortuna interviene Batman, non prima della sua ennesima risalita dal pozzo, dalle sue paure e dai suoi demoni originari. Colossale, imperdibile capitolo finale della trilogia nolaniana sull’uomo pipistrello.

mercoledì 6 marzo 2013

Back to Metropolis (1927)


La storia di Metropolis (1927) è innanzitutto quella del travagliato percorso delle numerosi versioni del film succedutesi nel tempo. Tagli, ce(n)sure, bobine scomparse, ritrovamenti, innesti e recuperi (l’ultimo a Buenos Aires nel 2008, una copia in 16 mm) che oggi ci permettono di apprezzare il film nella versione più completa, l’originale così come era stato concepito e montato da Fritz Lang

L’innovativa (per l’epoca) potenza visiva delle immagini, le visionarie architetture futuristiche, che hanno fatto scuola in tanta fantascienza (Blade Runner, 1982, Brazil, 1985), mantengono immutato il loro fascino. 
L’estro registico di Lang emerge nell’uso consapevole del flashback (la leggenda della Torre di Babele) e del montaggio alternato (l’angoscioso sogno di Freder mischiato allo spettacolo lussurioso del robot-Maria). Nella grande padronanza di dissolvenze (il robot che prende vita, la macchina-Moloch che ingoia gli operai) e suggestive sovraimpressioni (gli occhi ammaliati, rapiti che quasi toccano il corpo di Brigitte Helm al ballo dei ricchi). Nelle inquadrature oblique dall’alto dei grattacieli (in realtà si tratta di modellini cartonati ingigantiti da una serie di specchi), la vertigine percettiva di Metropolis. Nell’immobilità frontale che schiaccia gli schiavi nelle riprese della città dei lavoratori. L’alto e il basso, su e giù, continua discesa e risalita (ritroviamo spesso gli ascensori: nelle fabbriche, negli appartamenti). 


La morale di fondo, pacificazione e solidarietà fraterna tra individui, suona po’ datata e inattuale, quasi da operetta di formazione. Le riflessioni sul rapporto uomo-macchina e sul ruolo della tecnologia nella società dell’avvenire sono invece di grandissimo impatto: la macchina è viva, pulsante (la macchina-cuore), va nutrita, si ciba del corpo dell’uomo, del suo lavoro frenetico, va lubrificata con sangue, sudore, carne umana. Grande importanza assume il tema del tempo. Assoggettare l’uomo, negargli la libertà, significa rubare il suo tempo, il tempo per la vita e gli affetti. Joh Fredersen, il signore di Metropolis, è prima di tutto il padrone del tempo, colui che lo regola e lo scandisce a proprio vantaggio. L’unico tempo riconosciuto è quello del lavoro, e gli operai altro non fanno se non muoversi sull’asse del tempo loro imposto (spostano leve e lancette sull’orologio che segna le dieci ore del turno lavorativo).
Fuori da questo ciclo impazzito trovano spazio solo i Giardini Eterni, sorta di etereo paradiso bucolico con tanto di ninfe, e la casa del delirante inventore Rogwan, quasi una fiabesca e a-temporale dimora dell’orco delle favole (non a caso descritta come una casa “dimenticata dal tempo”). 

Fredersen è anche il padrone della luce. Produce energia e succhia elettricità dalle profondità della terra per illuminare la sua Metropolis. Anche a livello figurativo, la luce gioca un ruolo fondamentale. La fotografia di Karl Freund rimane  in bilico tra atmosfere ancora espressioniste (la grotta in cui Rogwan rapisce Maria, il sogno e i bagliori allucinatori di Freder) e una messinscena più realista fatta di bianchi e neri contrastati (il bianco lucente dei Giardini Eterni, dei vestiti di Freder, il volto candido di Maria, il nero della massa anonima dei lavoratori, le ombre scure che segnano il viso di Frederson, Rogwan). Maestosa e prorompente la partitura originale di Gottfried Huppertz nelle sequenze di maggiore afflato epico.

giovedì 28 febbraio 2013

Cogan - Killing them softly (2012) - di Andrew Dominik





Un paesaggio urbano degradato, sporco, prosciugato come un deserto. Un panorama umano ancora più arido, disfatto, vuoto e isolato. Sono scenari, quelli di Cogan - Killing them softly, che illlustrano lo sfaldarsi di ogni possibile contatto umano e affettivo. L’incrinarsi definitivo di qualunque rapporto basato su onore, rispetto reciproco, comprensione, amicizia, fiducia. Sullo sfondo di una crisi che ha fatto a brandelli il tessuto sociale. 


Fiducia, volontà e capacità di aprirsi all’altro, agli altri; mettersi d’accordo, stipulare patti e  contratti: ecco cosa viene negato in modo incontrovertibile nella periferia suburbana descritta da Andrew Dominik. Nessuno si fida più degli altri. Non ci sono certezze, nessuno offre garanzie. Johnny Amato (il Vincent Curatola dei Soprano), piccolo boss di quartiere, non si fida ad affidare la rapina allo sballatissimo Russell (un perfetto Ben Mendelsohn). Markie Trattman (Ray Liotta), il mafioso padrone della bisca, non gode più della fiducia dei capi. Non ha più credenziali, ha perso credibilità anche se innocente. Il sicario Cogan (Brad Pitt) scopre di non potersi fidare del vecchio partner Mickey (James Gandolfini), e lo fa imprigionare con l’inganno. Mickey stesso si mostra diffidente con Cogan. Sospetta che si porti a letto le sue donne alle sue spalle. Inoltre la moglie lo sta per lasciare, perché non crede più a false promesse. Il criminale Frankie, che tradisce il boss sperando di aver salva la vita, è l’unico a confidarsi con Cogan, e non a caso finisce con una pallottola in testa. 

Unico tramite tra le persone sono i soldi. Ogni vincolo, legame o relazione si base su passaggi e scambi di denaro (“Pagami, l’America non è un paese. E’ solo affari” si dice nel finale del film). Per tutto il resto si mantiene un distacco, si pone una distanza. Quella che Cogan mette tra se è le vittime che uccide, per stare lontano dalle emozioni, dal dolore, da quella malinconia “stucchevole” che lo scombussola di fronte a chi gli implora di risparmiarlo. 
La tesi di fondo (le leggi del mondo criminale equivalenti a quelle del capitalismo più feroce) è però ripetuta in modo troppo didascalico e poco originale, attraverso le voci dei dibattiti politici alle soglie dell’elezione di Obama

E’ invece nelle scene apparentemente più scarne e banali che Dominik da il meglio di sé, riuscendo a inquietare e a far passare il desolante messaggio. Si prenda la sequenza in cui Cogan è a colloquio con Mickey, nella stanza d’albergo in cui quest’ultimo ha appena fatto sesso con una prostituta. La donna si sta rivestendo e chiede a Cogan di riallacciarle la cerniera del vestito. Cogan rifiuta con un secco no, invitandola a rivolgersi al “suo cliente” per chiudere la zip. Esempio perfetto del meccanismo perverso per cui non si fa davvero più niente per nessuno, nemmeno il gesto più insignificante, senza che ci siano di mezzo dei soldi o un tornaconto personale. 
Non c’è umanità. La criminalità, come la politica e la vita, è regolata da un rapporto marcio tra azienda e cliente, committente ed esecutore, domanda ed offerta. Un sistema che non ammette errori o indecisioni, e che non esita a perfezionare gli esuberi (gli omicidi) per recuperare le perdite. La prostituta è l’unica presenza femminile in un contesto di dominio oppressivo totalmente maschile. 

Ma a ben guardare è tutt’intorno che impera un sistema di prostituzione imperante su scala generale: il nefasto rapporto clientelare con il dio denaro (Cogan non è altro che una prostituta di cui si servono i mafiosi). Del resto, la purezza è impossibile, se anche Thomas Jefferson era uno schiavista, come si dice in un punto. E Cogan cammina impassibile, seguito in carrellata, a fianco delle scintille di alcuni fuochi d’artificio, calpestando per sempre le stelle lucenti del Sogno Americano. 

Dominik filma i personaggi inchiodandoli alla loro solitudine mortificante. Praticamente assenti campi e controcampi nei dialoghi e nei momenti di confronto (in macchina, a tavola, in albergo, al bar), che pur costituiscono la sostanza del film. Non c’è reale comunicazione, ci sta dicendo. Il regista predilige volti in primo piano, inquadrature frontali e laterali alternate alle riprese da dietro dei personaggi. Sempre tratteggiati di profilo come in un album di foto segnaletiche, quasi senza profondità, schiacciati e appiattiti nel loro isolamento esistenziale.  

Prometheus (2012) - di Ridley Scott


Anno 2093. L’equipaggio della nave spaziale Prometheus è in viaggio verso un pianeta che potrebbe custodire il segreto della creazione umana. Due scienziati della spedizione hanno infatti scoperto, in varie parti del globo, una serie di pitture rupestri, raffiguranti alcuni misteriosi giganti intenti a indicare una mappa di stelle. Persuasi del fatto che si tratti di un invito di questi esseri, chiamati “Ingegneri”, ad essere raggiunti nello spazio, i due si preparano ad un incontro rivelatore, ma le cose non andranno come previsto...

La grande attesa per l’uscita di Prometheus ha destato curiosità e dubbi: sarà davvero un prequel di Alien, in grado di far luce sui misteri lasciati insoluti dal film del ’79? Si tratta di aspettative in realtà fuorvianti. Prometheus non è il preludio ad Alien, quanto una sua variazione sul tema (arrivo sul pianeta sconosciuto, scontro con l’alieno, tentativo di fuga), una ramificazione a partire da una radice comune. Un prodotto derivato dalla stessa sostanza. Alla base di tutto sta infatti un fattore biologico, un legame genetico. Ecco allora il prologo con i filamenti del Dna dell’alieno, che si spezzano e si sciolgono nelle profondità dell’acqua, originando le prime cellule batteriche da cui prenderà forma la vita sulla Terra (“Tutte le grandi cose hanno piccoli inizi” dirà l’androide David). L’alieno si disintegra ingerendo un misterioso liquido nero: siamo forse il risultato di una reazione chimica imprevista, un rigetto vomitato fuori? 


Ridley Scott, o il moderno Prometeo. Il regista torna a riflettere sulla formazione del diverso a partire dall’identico, sulla produzione del differente a partire dall’uguale. Una discendenza evolutiva. Un processo di generazione e filiazione (le scene di parto alieno) che riflette sulle contradditorie dinamiche tra creatori e creati, tra padri e figli (“Tutti vogliono veder morire i genitori” spiega l’androide). Così gli Ingegneri forgiano la specie umana (come il Prometeo del mito greco la plasmò dal fango) per poi tentare di sterminarla. L’uomo costruisce esseri sintetici posti sotto il suo controllo, ma di cui presto diventa vittima: l’androide David penetra nei sogni e nei ricordi altrui, sperimenta mutazioni sul corpo umano. Ne nasce un contagio, una regressione, un virus che colpisce significativamente nel campo del visibile (l’immagine degli occhi arrossati, liquidi e malati dello scienziato). Tutto ciò che appare estraneo, radicalmente ai margini, si scopre essere parte integrante della nostra realtà, in un gioco sistematico di ricongiungimenti e sovrapposizioni (il codice genetico di umani e alieni che corrisponde perfettamente, le incisioni di epoche, culture, popoli diversi che rappresentano la stessa mappa stellare).

Buon ritmo e suggestive invenzioni visive, con il 3D che funziona a dovere nel modellare ologrammi e futuristiche mappature virtuali. Scott si muove agevolmente tra gli spazi chiusi della nave spaziale, dove dominano il bianco delle pareti e il giallo soffuso delle luci, e l’ambiente esterno, la piramide aliena, con le tinte bluastre delle sue cripte e cunicoli (la catacomba degli Ingegneri). La tensione serpeggia costante, anche se siamo lontani dalla suspense in agguato ad ogni angolo e dal terrore claustrofobico di Alien. Qualche enigma viene svelato (l’identità dello Space Jockey fossilizzato al comando della navetta in Alien), ma bisognerà aspettare un sequel, o forse più di uno, per riempire i buchi di una sceneggiatura spesso troppo debole e frettolosa.

lunedì 21 gennaio 2013

Django Unchained (2012)



Un dato significativo, innanzitutto. Django Unchained è il primo film di Tarantino dentro il quale il cinema, come mezzo tecnologico, non esiste. Non c’è e non dovrebbe esserci. Perché ancora non è stato inventato (siamo nel 1858, alla vigilia della Guerra Civile americana). Eppure, in qualche modo, il cinema è lì ma non si vede, come la D di Django: c’è ma resta muta, silenziosa (e Franco Nero ben se lo ricorda).

Non è difficile immaginare lo scoppiettante duo Django- Dr. King Schultz trapiantato ai giorni nostri: starebbero lì, seduti alla tavola calda, a sproloquiare su Like A Virgin di Madonna come le iene di Reservoir Dogs. O a discutere di massaggi ai piedi e hamburger di McDonalds alla stregua dei killer di Pulp Fiction. A elucubrare su Clark Kent e Superman assieme a Bill Gunn. O ancora a scambiare opinioni su Pabst, Fassbinder e l’espressionismo tedesco come i militari cinefili di Bastardi senza Gloria.


Quando però si tratta di cinema, del cinema, Tarantino non ammette gli anacronismi che riserva alla Storia (centrali in Inglourious Basterds). Nel West di Django Unchained non c’è ancora spazio per i cortocircuiti indotti dalle potenzialità del cinematografo. Non è ancora tempo per la mercificazione culturale di massa. 
E allora, l’immaginario, si fa con quel che c’è. Antiche leggende teutoniche, impavidi eroi presi a prestito dalla mitologia (Sigfrido, Brunilde  e il drago): è questa la cultura-pop a disposizione, a cui Django si appassiona. Guardare, per credere, come si inginocchia in silenzio davanti al fuoco per seguire il racconto di Schultz. Quasi un bambino rapito all’ascolto della favola. Sempre curioso di sapere cosa succede dopo (E poi…e poi?). Perché quella storia, di schiavitù, amore, liberazione e vendetta, è la sua storia, il dramma di un intero popolo sottomesso. 


Divisione fra razze ma anche scontro di culture, in Django Unchained. L’edificante epica di matrice germanica e la ricercatezza europea (il parlare forbito di King Schultz) da una parte. L’exploitation sanguinosa e gratuita delle rozze americanate di serie B dall’altra. 
E qui Tarantino quasi fa autocritica, con la sequenza dello schiavo sbranato vivo dai cani di Calvin Candie. King Schultz è turbato dalla scena, vorrebbe salvare il malcapitato. Mentre Django resta dolorosamente a contemplare, impassibile. “Io sono più abituato agli americani”, spiega riflettendo la piena coscienza da parte di Tarantino del turpe passato di violenza degli USA, a dispetto di ogni accusa mossagli contro.

Tarantino muove verso nuove influenze e nuove radici. Letterarie, ad esempio, citando Alexandre Dumas (1802-1870) e I tre moschettieri. Modesto scrittore di romanzi per il pubblico di massa, Dumas. Autore pop, attento a  mode e gusti del suo tempo, certo non poteva sfuggire al regista. E allora, l’unione fa la forza. Tutti per uno, uno per tutti.  Django il moschettiere si unisce alle forze del re-King Schultz per sfidare il perfido Candie-Richelieu e ricongiungersi all’amata. Il riferimento a Dumas svela inoltre la barbara inciviltà e l’ignoranza del dispotismo “bianco”: il giocondo Monsieur Candie (così vuol essere chiamato, ma non sa parlare francese) si pavoneggia raffinato intellettuale e chiama il suo schiavo D’Artagnan, non sapendo che il romanzo a cui appartiene il personaggio fu scritto proprio da uno di quei neri che disprezza.

Il razzismo, per Tarantino, non può che essere, prima di tutto, diffusa incultura: dei testi, delle storie, della finzione e dell’immaginario. Ma anche dello scientismo illuminato, con le teorie di Newton e Galileo distorte in pregiudizio razziale: la superiorità biologica, cerebrale (si veda la scena del teschio), del wasp americano sul nigger votato al servilismo. 
Intolleranza visibile anche nella patetica sensibilità artistica di Candie (la scultura raffigurante i lottatori del Mandingo) e nella sua radicale mancanza di senso storico. Emblematico il kitsch da basso impero decadente che adorna il locale Cleopatra Club, con la sala “Giulio Cesare” e la testa della regina d’Egitto esposta su un mobile. D’altronde, è lo stesso Candie, scoperto l’inganno ai suoi danni, a rivelare di aver "covato una serpe” in seno.

 

Personaggio inafferrabile, Django. Ambiguo, difficile da identificare (“Chi è quel negro?” si chiedono i prigionieri vedendolo fuggire nella clip che segue i titoli di coda). Spesso ritratto fuori fuoco, in perenne transito (l’insistenza sulle inquadrature di spostamenti e viaggi a cavallo). Impreciso nella caratterizzazione, volutamente appena abbozzato (“Posso scegliermi il costume da solo?” si domanda).

Si muove come un agile pistolero di Sergio Leone tra zommate improvvise, tempi dilatati e atmosfere sospese (magistrale la strategia della tensione crescente durante la cena a casa Candie, che rievoca quella della taverna francese di Bastardi senza gloria). Tra spari al rallentatore e fiotti di sangue che affrescano le pareti. Prima dell’inevitabile, catartica, esplosione finale.

sabato 19 gennaio 2013

Frankenweenie (2012)


Re-animation: il Burton ricostruito di Frankenweenie
 
Victor Frankenstein è un ombroso ragazzino con un forte interesse per la scienza, che passa le giornate in solitudine girando film in super8 in compagnia dell’inseparabile cagnolino Sparky. Quando l’animale muore investito da una macchina, Victor cade nello sconforto più totale: ha perso l’unico, amatissimo amico. Seguendo un bizzarro esperimento scolastico, riuscirà però a riportare in vita Sparky, all’insaputa di tutti. Ora, il cagnolino dovrà restare nascosto…




Il tempo della comparsa del logo Disney sullo schermo e lo sfondo si fa grigio, cinereo, plumbeo. Il tono allegro del jingle di apertura sfocia nelle sonorità lugubri della partitura di Danny Elfman.

Ancora una volta, benvenuti a Burtonland. Il teatro dell’azione sarà New Holland, sonnolenta cittadina carica di influenze olandesi: i mulini (figure spesso presenti in Burton, già viste ne Il mistero di Sleepy Hollow, 1999, e in Alice in Wonderland, 2010), i fiori rigogliosi e perfettamente curati dei giardini, le celebrazioni imminenti per il “Dutch day”, la ragazzina Elsa che porta il cognome del dottor Van Helsing di Dracula.

Il contesto di New Holland è quello di una bolla spazio-temporale in cui tutto è fermo, come sotto la cupola di una palla di vetro in miniatura. Proprio come nella cornice favolistica di Edward mani di forbice (1990). Se là scendevano fiocchi di neve, qui, sul nuovo, tetro universo burtoniano, si infrangono regolarmente pioggia, vento, tuoni e fulmini.

La veduta panoramica della città, con il mulino e il cartellone “New Holland” (identico alla monumentale scritta bianca di “Hollywood”), che dall’alto della collinetta in lontananza sovrastano lo scenario suburbano di ville e giardinetti, è la perfetta immagine-simbolo di un paesaggio geografico, sociale e culturale forzatamente fagocitato da logiche e modelli fittizi, legati a un immaginario buonista e rassicurante tipico della provincia americana (da sempre nel mirino di Burton).



New Holland va così ad aggiungersi alla galleria di luoghi burtoniani dove i gretti abitanti vivono in un conformismo ottuso che spinge verso la mediocrità. Verso la repressione di ogni sentimento autentico, sensibilità particolare, stimolo creativo. Non appena questi siano percepiti come strani, incongrui, devianti rispetto alla sicurezza e alla banalità della norma.

La curiosità, la vivacità intellettuale, la sete di conoscenza del provetto scienziato Victor sono mal tollerate dagli ingessati benpensanti di New Holland, che si rifugiano in una piatta monotonia e in un oscurantismo consolatorio. “Sapere troppo non fa bene” ammonisce la flaccida e prepotente maestra di educazione fisica della scuola di Victor, promossa a insegnare Scienze in tuta da ginnastica. In un edificio scolastico che ricorda le architetture del razionalismo fascista (sintomo di tutta la radicale sfiducia che Burton continua a nutrire verso le istituzioni educative).




Lo stralunato ma sincero Mr. Rzykruski viene allontanato soltanto perché giudicato troppo eccentrico (non viene nemmeno chiamato per nome dal sindaco, ma spregiativamente indicato come “la minaccia”). 
Grazie a lui, i bambini cominciano a pensare con la propria testa, a fare domande astruse, inconsuete, e questo terrorizza i loro scialbi genitori. 
Come spiega rassegnato lo stesso Rzykruski a Victor “la gente vuole quello che la scienza gli dà, non le domande che la scienza pone”, testimoniando tutta l’egoista meschinità dei cittadini di New Holland. 



Lo stesso padre di Victor, pur comprensivo e premuroso con il figlio, lo istruisce al compromesso (incoraggiandolo ad uscire dalla soffitta per dedicarsi al baseball come gli altri ragazzi). A sacrificare se stesso e le sue doti al giudizio superficiale della massa. Ma in questo modo, dice Victor, “nessuno è veramente felice”.

Anche i suoi compagni alzano il velo sull’ipocrisia. Come il grassoccio Bob, quando, leggendo le istruzioni sulla scatola di alcune scimmiette-giocattolo mutate in mostri, rivela inconsapevolmente la tragica verità sul mortificante panorama della vita di New Holland, con i suoi abitanti assimilati a pazzi animaletti urlanti: “Sulla scatola c’è scritto che vivono felici nel loro regno, sempre con un sorriso. Ma non è così”.

Victor e Rzykruski sono dunque i soli a sancire l’importanza della sensibilità individuale. A incarnare la figura dell’artista-scienziato illuminato, in lotta contro il bieco scetticismo e la diffidenza arrogante (il maestro bolla come “stupidi e ignoranti” tutti i genitori presenti all’assemblea scolastica).

Fede nella ragione (del cervello e del cuore) e nella bontà del progresso (intimo e umanista più che sociale e tecnologico), contro la spersonalizzante omologazione generale. Una diversità dello sguardo di cui Burton si fa ancora una volta alfiere (“Vedere è sapere” certifica Edgar, il goffo e ingobbito compagno di Victor che ricorda l’Igor di Frankenstein Junior, 1974). 
In questo senso, il finale è ottimistico, con il mea culpa dei grandi (“A volte gli adulti non sanno di cosa parlano” ammette il padre di Victor).



Dunque, si diceva, nessuna spinta all’inventiva personale, alla trasgressione della norma e al cambiamento. È lo stesso processo sperimentato in prima persona dal giovane Burton animatore alla Disney, costretto a smorzare il suo impeto visionario incanalandolo nei rigidi standard imposti dall’azienda.

Ecco allora che Burton, attraverso la messa in scena finzionale (ambientazione, personaggi e plot), opera una riflessione metatestuale sulla natura e sul travagliato percorso di Frankenweenie inteso come oggetto filmico, come prodotto audiovisivo.

La vicenda di Sparky che muore e ritorna in vita, infatti, si presta oggi ad essere letta come la storia  della scomparsa e dell’occultamento di un testo (il Frankenweenie mediometraggio del 1984) e del suo recupero, della sua rinnovata visibilità (il Frankenweenie lungometraggio del 2012). Tutto ciò è reso possibile da un curioso parallelo, con un meccanismo di identificazione tra la  personalità artistica di Burton e il personaggio di Sparky.

Il Burton animatore alla Disney, infatti, può essere visto come una sorta di cane sciolto che scorrazza liberamente e disordinatamente (come fa Sparky) tra le macabre e sconfinate lande della sua immaginazione. Con un fortissimo legame emotivo, puro ed autentico, quasi ingenuo, con le bizzarre creature che incontra lungo la strada (come fa il fedele Sparky con il padrone Victor e la barboncina Persefone) e che la sua matita cattura. 


Un entusiasmo e una frenesia a cui è impossibile porre freno, mettere la museruola, legare alla catena (proprio come Sparky, sempre pronto a spezzare le corde che lo cingono per correre verso il gioco e la libertà).

Un’esplosione di vitalità creativa che tuttavia viene annullata, negata, frustrata (Sparky muore investito da una macchina, Burton si deprime vedendo osteggiato e  censurato il suo lavoro su Frankenweenie). 
Solo successivamente viene recuperata, ri-animata, resuscitata. Il Frankenweenie di Burton ritorna così in vita finalmente riassemblato e ricucito (come gli organi e il pelo di Sparky) nella sua versione più compiuta, nel pieno della sua essenza. Alla fine del percorso, entrambi si vedono pubblicamente accettati, il loro merito riconosciuto (il cagnolino dai cittadini di New Holland, Burton dai produttori-spettatori). Pur restando, inevitabilmente, dei diversi, degli strani, bizzosi e bizzarri freaks.

In questa prospettiva, è il cagnolino Sparky, e non il solitario Victor (pur modellato sulle ossessioni del regista bambino), il vero alter ego di Burton all’interno della narrazione.

Interessantissimo il pre-finale, con la città che diventa un gigantesco luna-park. Un’impazzita giostra itinerante (ancora la visione di Burton dei sobborghi americani come stranianti caricature da parco a tema) in balia di icone cinematografiche tra le più disparate (al cinema locale si proietta Bambi, c’è un piccolo criceto-mummia, il mostro-tartaruga gigante che sembra Godzilla e si chiama Shelley come la Mary del romanzo Frankenstein, le voraci scimmiette strepitanti che ricordano i Gremlins, l’indifeso gatto Baffino che si trasforma in orripilante pipistrello-mannaro). 
Spuntano anche riferimenti alla produzione letteraria di Burton, con il personaggio della stramba e catatonica ragazzina dai grandi occhi che è uguale alla Staring girl (La bambina che fissava) presente nella raccolta di poesie Morte malinconica del bambino Ostrica (The Melancholy Death of Oyster Boy & Other Stories, 1997).



È il caos prodotto dalla liberazione dell’immaginazione, dallo sconfinamento della finzione nella realtà della storia, che arriva a soverchiare una volta per tutte la finta armonia e la cordialità di facciata della popolazione di New Holland. Con la materializzazione concreta dei fantasmi in pellicola (il corto “Monsters from Beyond”) che Victor filma (rigorosamente in stop motion) e nell’incipit mostra in salotto ai genitori, con Sparky dinosauro preistorico che combatte uno pterodattilo in giardino, tra bambole e soldatini (l’artigianalità dell’approccio cinematografico sempre cara a Burton). 


La visione domestica sul vecchio televisore a tubo catodico ha sempre un posto privilegiato, nei ricordi nostalgici del regista: si scorge Christopher Lee in Dracula il vampiro (1958), in una bellissima sequenza in cui la magniloquente colonna sonora del film di Terence Fisher che giunge dallo schermo (i genitori di Victor stanno guardando il film seduti sul divano) fa da contrappunto ai movimenti del ragazzino, rientrato in casa di soppiatto, intento a non farsi scoprire con il cadavere di Sparky trafugato al cimitero. In un’ideale sovrapposizione tra la materia filmica che ha plasmato l’immaginazione del Burton bambino e la sua ri-attualizzazione nel presente di Frankenweenie.

Perché è questa l’operazione di Burton (comunque di pregevole fattura): il regista non innova più radicalmente ma ripropone, rimescola, riallestisce in una nuova (?) storia temi, personaggi e atmosfere che sono ormai divenuti un brand, il suo inconfondibile marchio di fabbrica.

giovedì 17 gennaio 2013

Ho perso le parole...



The Words
di Brian Klugman e Lee Sternthal

Data di uscita italiana: 21 settembre 2012

Parole per raccontare, per condividere una storia. Storie vere o inventate. Parole che sgorgano spontanee dal dolore, una marea inarrestabile che inonda la pagina. Parole rubate o ritrovate. Frasi di una storia sconosciuta, ricopiate per il piacere sublime di sentire parole scorrere attraverso le dita. Toccare le parole. Parole che “rovinano tutto”, che guastano vite, persone, amori. La seduzione folle della scrittura. Perché delle parole ci si può innamorare a tal punto da farci dimenticare chi ce le ha ispirate, lasciando solo rimorsi e un manoscritto ingiallito al posto del fuoco di una passione ardente, perduta per sempre.

Sono tutte queste le words che segnano l’esordio cinematografico di Brian Klugman e Lee Sternthal. Al centro c’è il processo della scrittura, il potere di raccontare storie, il ruolo dello storytelling. In un intreccio di narratori e narratari, autori e lettori, creatori (falsi) e personaggi (veri). C’è chi scrive per vocazione. Chi  per mestiere, come Rory Jansen, che tira a campare con gli assegni paterni in attesa di scrivere il libro della vita. C’è invece che scrive per cancellare il dolore, riversando i traumi sulla pagina (il personaggio di Jeremy Irons da giovane). 

Le parole erompono da dentro, si fissano da sole sulla pagina, senza sforzo, senza quasi accorgersene, velocissime. In un flusso torrenziale diretto, sincero, vero, profondo, e per questo unico. Per quale motivo e per chi scrive invece Clay Hammond? Per il successo, per il piacere del racconto, di giocare con la finzione? Ha solamente inventato la storia di un plagio, di un furto, o si tratta del racconto della sua vita? Al pubblico del reading sta forse nascondendo la verità nel momento stesso in cui rivela esplicitamente la sua menzogna? 


La forza e l’ambiguità della parola. Confini incerti poichè, come dice Clay, “realtà e finzione sono vicine, ma non si toccano mai”. Piuttosto si sovrappongono, nell’intreccio di piani narrativi, voci e flashback che caratterizzano il plot. Un groviglio intrigante in cui però si finisce presto per annoiarsi. Dopo le buone premesse della prima parte, il film si arena in una sorta di “blocco dello scrittore” creativo dei due registi-sceneggiatori, che non sanno più dove andare a parare. Il colpo di scena rivelatorio a cui si prepara lo spettatore va a vuoto. 

Più di tutto viene compromessa una riflessione sull’arte del narrare, di trasfigurare le mancanze della vita in racconto, che poteva risultare originale, ma che viene invece dispersa in una sequela confusa di dialoghi, confessioni, confronti tra i personaggi, logorante come la lettura del classico libro-mattone.

Interessante solo in parte, un film che sarà presto dimenticato sullo scaffale come un vecchio libro polveroso.   

mercoledì 16 gennaio 2013

(S)cene indigeribili



Killer Joe (2011)  
di William Friedkin


Data di uscita italiana: 11 ottobre 2012



Un paesino della provincia texana. Lo sbandato Chris è un giovane spacciatore assediato dai debiti. D’accordo col padre e la matrigna, decide di assassinare la madre per intascare una grossa somma dall’assicurazione. Assolda così il poliziotto Joe Cooper, nel tempo libero infallibile killer. La presenza dell’imprevedibile sorella di Chris, Dottie, e il sorgere di alcuni imprevisti, complicheranno la situazione.



Incipit. Schermo nero. Lo scatto ripetuto di un accendino. Uno sparo secco rompe il silenzio. L’eco si confonde nel fragore di un tuono. Rumori che, dietro una calma apparente, ovattata, nascondono scintille pericolose. Fiammate maligne pronte a divampare all’improvviso. Colpi, scatti e lampi di violenza sul punto di esplodere da un momento all’altro. 
Sono questi i movimenti che attraversano tutto il film. Il regista catapulta lo spettatore al centro di miserie umane ed efferatezze brutali senza preavviso, spiazzandolo di colpo, all’interno di un vortice impazzito.



Friedkin gioca a fare il piromane in un film radicalmente incendiario. Facendo a pezzi tutto e tutti, senza risparmiare nessuno. L’attimo prima c’è una famiglia e il suo strano ospite, seduti per la cena. L’attimo dopo la cucina diventa un ribollire di sangue, urla, pistole, coltelli. Scene da rivoltare lo stomaco si direbbe, visto che siamo a tavola. Viene fatta a fette la società americana. Si scardinano i valori buonisti, l’ipocrisia che cela un feroce cannibalismo, per cui ci si sbrana l’un l’altro anche, anzi soprattutto, tra consanguinei.



Friedkin infonde alle immagini un’inquietudine morbosa, nauseante. Innesca un perverso meccanismo di attrazione/repulsione, in scene che in mano ad altri registi sarebbero risultate goffe (il coito orale mimato con la coscia di pollo, Killer Joe che si struscia sulla ragazzina).


Le sequenze cominciano con le buone maniere. Si  procede con lentezza, ritmo sospeso, atmosfere distese e rilassate, a lume di candela. Poi, di colpo, partono le schegge. Si ribalta volgarmente il “galateo” culinario e civile (Joe rovescia la tavola, fracassa il televisore), cinematografico (si passa dal piano sequenza al sezionamento frenetico). Un incedere di attese spasmodiche e di tensione paranoica. Elementi tipici di Friedkin fin da L’esorcista (1973), e visti all’opera anche nel claustrofobico Bug (2006).




Vengono portate alle estreme conseguenze le nefandezze della crisi economica. In fondo si parla di una famiglia alle prese con un debito enorme che scopre di non poter saldare. Se non al prezzo salatissimo della propria distruzione ad opera di Joe, che per i suoi servigi esige un pagamento in natura, una caparra umana (la giovane Dottie). Altrimenti si riprenderà tutto con gli interessi, con una carneficina, chiedendo un tributo di sangue.


Soldi sporchi e corpi lividi, dilaniati, carbonizzati. Joe è paradossalmente l’unico personaggio che più volte fa richiami all’ordine, all’equilibrio, all’educazione e al rispetto dei patti, in un tessuto sociale sfibrato e irrimediabilmente fuori controllo. Sembra il solo a conoscere le leggi della vita, del mercato. Cita il motto latino Caveat Emptor: attenzione agli acquisti incauti, accertatevi sempre di cosa state comprando. Con questo personaggio, un po’ cowboy senza passato e un po’ Stuntman Mike (Grindhouse di Tarantino, 2007), Friedkin giunge al culmine dello straniamento che segna l’intero film.


Viene ridicolizzato il rituale della preghiera a tavola. Joe diventa il sinistro capofamiglia, lo psicotico padre-padrone il cui unico, folle desiderio, è quello di “mangiare tutti insieme, come una vera famiglia”. La cena è servita: la famiglia americana in putrefazione.

Cast di altissimo livello, fra cui spicca la spigliatissima Juno Temple e un Matthew Mc Conaughey formidabile, in una prova finalmente convincente dopo troppo commedie all’acqua di rose.


Un capitolo e un modo di fare cinema assolutamente imperdibili.