venerdì 10 gennaio 2014

American Hustle - L'apparenza inganna

Regia: David O. Russell 
Anno: 2014
Irving Rosenfeld è un truffatore arricchitosi con lo smercio di quadri rubati e falsi prestiti a gente disperata. Pizzicato da un ambizioso agente Fbi insieme alla socia/amante Sidney, in cambio dell’immunità è costretto a collaborare a una pericolosa operazione di polizia, tra giochi di potere, bugie e inganni insospettabili.  
 

Camerini con (s)vista
“Che io mi ricordi, ho sempre voluto fare il gangster” diceva l’Henry Hill protagonista di Goodfellas di Martin Scorsese, aprendo il flashback sulla sua infanzia di quartiere. “Volevo stare dalla parte di chi fregava, non di chi, come mio padre, veniva fregato”, spiega con sicurezza l’Irving Rosenfeld di American Hustle, ragazzotto svelto a imparare la dura legge dei bassifondi, fracassando vetrate a colpi di mattone.
Sembrerebbe dunque un perfetto bravo ragazzo scorsesiano in erba, Irving. Non fosse che all’opulenza megalomane, alla gloria e all’ambizione sfrenata, predilige un profilo basso, da “peso medio” della vita, un pò come i pugili di periferia di The Fighter (2010).
Furtarelli, patacche d’autore che nessuno reclama, ricettatori di mezza tacca, spiantati con l’acqua alla gola. Agire in un mare di pesci piccoli, colpire a raggio limitato, senza intaccare gli affari dei grandi “squali” della società.
Una “visione” (parola che occorre più volte lungo il film) del sogno americano per una volta smaller than life, serenamente circoscritta. Riversata nel desiderio, nell’abbandono totale ad un amore sconfinato (quello per Sidney) eppure racchiuso in uno sgabuzzino striminzito.
Dove cinti dal roteare di un appendiabiti meccanico, Irving e Sidney danzano teneramente sulla musica di Duke Ellington (anche la coppia de Il lato positivo si saldava nel momento del ballo). Stretti, quasi soffocati dai vestiti inamidati della lavanderia.
Vite e corpi sempre al centro del travestimento, del trucco pesante o coprente: smalti profumati, rossetti e pelle affumicata dalle lampade di Rosalyn/Jennifer Lawrence, ricci e ciocche di bigodi di Richie/Bradley Cooper e Sidney/Amy Adams, i capelli impomatati e laccati di Irving/Christian Bale, la parrucca alla Joe Pesci di Carmine Polito/Jeremy Renner.
Galleria di falsi e falsari, costruiti ad arte ma più veri del vero (“Le persone credono a ciò a cui vogliono credere”). Come il finto (?) “San Bartolomeo” di Rembrandt di fronte al quale Irving istruisce Richie sulla natura della finzione.
Continua (re)invenzione, falsificazione, contraffazione di se stessi, prima di tutto. Un make-up facciale e personale che diventa metafora del ritratto e del restyling a matita (chiaro)scura di un intero Paese. Gli Usa perennemente affannati a rifondare, ricostruirsi, ripianarsi e ripararsi (mafia, politici e imprenditori uniti per riportare Atlantic City agli antichi, scintillanti fasti del Proibizionismo).
In un sistema (liberale o criminale?) di poteri e loschi interessi mai veramente sepolto. Ma sempre in via di ristrutturazione, di abbellimento (?) e ammodernamento. Come il soffitto a volta dipinto di cui si vanta Polito, rimesso a nuovo ignorando leggi da lui stesso emanate. Smascherare i corrotti allora, non significa tanto arrestare i criminali che sparano per strada lasciando i cadaveri sul marciapiede (il boss Tellegio in un cameo fulminante di De Niro).
Quanto levare via il cerone della rispettabilità. Scrostare la patina di legalità dal volto (apparentemente) pulito di burocrati, avvocati, senatori. Svelare i trucchi della politica davanti alle telecamere. “Struccare”, invece di incollare riporti allo specchio come Irving nell’incipit.


O. Russell pedina i personaggi tra appartamenti, cucine in fiamme, bagni, stanze d’albergo, corridoi, sale appartate e suite lussuose. Tutti luoghi-backstage, camerini con (s)vista sul sogno americano: ogni volta in pezzi e ogni volta in procinto di ricomporsi. Perché la terra delle opportunità è anche il luogo dove “la necessità (di sopravvivere) è la madre dell’invenzione”.
Un piano geniale per gabbare gli altri, dopo un’intera vita passata a “truffare se stessi”, a ingannarsi, sfuggendo ai rischi e a dolorose verità. Almeno finché non si è trovato l’amore “vero”, che permetta di accettarsi come siamo, senza disagi, paure, imbarazzi. Sentendosi parte di un segreto che nessun altro sembra avere scoperto.
Più che i milioni, è questa l’unica posta in gioco. Come dice Sidney ad Irving: “Non sei niente per me, se non puoi essere tutto”. E a questo tutto si cerca di restare abbracciati, continuando a danzare sulle note swingeggianti di Jeep’s Blues di Duke Ellington. Tutto il resto, soldi compresi, può aspettare.




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