Anno: 2014
Irving
Rosenfeld è un truffatore arricchitosi con lo smercio di quadri rubati e falsi
prestiti a gente disperata. Pizzicato da un ambizioso agente Fbi insieme alla
socia/amante Sidney, in cambio dell’immunità è costretto a collaborare a una
pericolosa operazione di polizia, tra giochi di potere, bugie e inganni
insospettabili.
Camerini con (s)vista
“Che
io mi ricordi, ho sempre voluto fare il gangster” diceva l’Henry Hill
protagonista di Goodfellas di Martin Scorsese, aprendo il flashback
sulla sua infanzia di quartiere. “Volevo stare dalla parte di chi fregava, non di
chi, come mio padre, veniva fregato”, spiega con sicurezza l’Irving Rosenfeld
di American Hustle, ragazzotto svelto a imparare la dura legge dei
bassifondi, fracassando vetrate a colpi di mattone.
Sembrerebbe
dunque un perfetto bravo ragazzo scorsesiano in erba, Irving. Non fosse che
all’opulenza megalomane, alla gloria e all’ambizione sfrenata, predilige un
profilo basso, da “peso medio” della vita, un pò come i pugili di periferia di The
Fighter (2010).
Furtarelli,
patacche d’autore che nessuno reclama, ricettatori di mezza tacca, spiantati
con l’acqua alla gola. Agire in un mare di pesci piccoli, colpire a raggio
limitato, senza intaccare gli affari dei grandi “squali” della società.
Una
“visione” (parola che occorre più volte lungo il film) del sogno americano per
una volta smaller than life, serenamente circoscritta. Riversata
nel desiderio, nell’abbandono totale ad un amore sconfinato (quello per Sidney)
eppure racchiuso in uno sgabuzzino striminzito.
Dove
cinti dal roteare di un appendiabiti meccanico, Irving e Sidney danzano
teneramente sulla musica di Duke Ellington (anche la coppia de Il lato
positivo si saldava nel momento del ballo). Stretti, quasi soffocati dai
vestiti inamidati della lavanderia.
Vite
e corpi sempre al centro del travestimento, del trucco
pesante o coprente: smalti profumati, rossetti e pelle affumicata dalle
lampade di Rosalyn/Jennifer Lawrence, ricci e ciocche di bigodi di
Richie/Bradley Cooper e Sidney/Amy Adams, i capelli impomatati e laccati di
Irving/Christian Bale, la parrucca alla Joe Pesci di Carmine Polito/Jeremy
Renner.
Galleria
di falsi e falsari, costruiti ad arte ma più veri del vero (“Le
persone credono a ciò a cui vogliono credere”). Come il finto (?) “San
Bartolomeo” di Rembrandt di fronte al quale Irving istruisce Richie sulla
natura della finzione.
Continua
(re)invenzione, falsificazione, contraffazione di se stessi, prima di tutto. Un
make-up facciale e personale che diventa metafora del ritratto e del restyling
a matita (chiaro)scura di un intero Paese. Gli Usa perennemente affannati a
rifondare, ricostruirsi, ripianarsi e ripararsi (mafia, politici e imprenditori
uniti per riportare Atlantic City agli antichi, scintillanti fasti del
Proibizionismo).
In
un sistema (liberale o criminale?) di poteri e loschi interessi mai veramente
sepolto. Ma sempre in via di ristrutturazione, di abbellimento (?) e
ammodernamento. Come il soffitto a volta dipinto di cui si vanta Polito,
rimesso a nuovo ignorando leggi da lui stesso emanate. Smascherare i corrotti
allora, non significa tanto arrestare i criminali che sparano per strada
lasciando i cadaveri sul marciapiede (il boss Tellegio in un cameo fulminante
di De Niro).
Quanto
levare via il cerone della rispettabilità. Scrostare la patina di legalità dal
volto (apparentemente) pulito di burocrati, avvocati, senatori. Svelare i
trucchi della politica davanti alle telecamere. “Struccare”, invece di
incollare riporti allo specchio come Irving nell’incipit.
O. Russell pedina i personaggi tra appartamenti, cucine in fiamme, bagni, stanze d’albergo, corridoi, sale appartate e suite lussuose. Tutti luoghi-backstage, camerini con (s)vista sul sogno americano: ogni volta in pezzi e ogni volta in procinto di ricomporsi. Perché la terra delle opportunità è anche il luogo dove “la necessità (di sopravvivere) è la madre dell’invenzione”.
Un
piano geniale per gabbare gli altri, dopo un’intera vita passata a “truffare se
stessi”, a ingannarsi, sfuggendo ai rischi e a dolorose verità. Almeno finché
non si è trovato l’amore “vero”, che permetta di accettarsi come siamo, senza
disagi, paure, imbarazzi. Sentendosi parte di un segreto che nessun altro
sembra avere scoperto.
Più
che i milioni, è questa l’unica posta in gioco. Come dice Sidney ad Irving:
“Non sei niente per me, se non puoi essere tutto”. E a questo tutto si cerca di
restare abbracciati, continuando a danzare sulle note swingeggianti di Jeep’s
Blues di Duke Ellington. Tutto il resto, soldi compresi, può aspettare.
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