Anno 2093. L’equipaggio della
nave spaziale Prometheus è in viaggio verso un pianeta che potrebbe custodire
il segreto della creazione umana. Due scienziati della spedizione hanno infatti
scoperto, in varie parti del globo, una serie di pitture rupestri, raffiguranti
alcuni misteriosi giganti intenti a indicare una mappa di stelle. Persuasi del
fatto che si tratti di un invito di questi esseri, chiamati “Ingegneri”, ad
essere raggiunti nello spazio, i due si preparano ad un incontro rivelatore, ma
le cose non andranno come previsto...
La grande attesa per l’uscita di Prometheus ha destato curiosità e dubbi:
sarà davvero un prequel di Alien, in grado di
far luce sui misteri lasciati insoluti dal film del ’79? Si tratta di
aspettative in realtà fuorvianti. Prometheus
non è il preludio ad Alien, quanto
una sua variazione sul tema (arrivo sul pianeta sconosciuto, scontro con
l’alieno, tentativo di fuga), una ramificazione a partire da una radice comune. Un prodotto derivato dalla stessa sostanza. Alla base di tutto sta infatti un
fattore biologico, un legame genetico. Ecco allora il prologo con i filamenti del
Dna dell’alieno, che si spezzano e si sciolgono nelle profondità dell’acqua, originando
le prime cellule batteriche da cui prenderà forma la vita sulla Terra (“Tutte
le grandi cose hanno piccoli inizi” dirà l’androide David). L’alieno si
disintegra ingerendo un misterioso liquido nero: siamo forse il risultato di
una reazione chimica imprevista, un rigetto vomitato fuori?
Ridley Scott, o il
moderno Prometeo. Il regista torna a riflettere sulla formazione del diverso a
partire dall’identico, sulla produzione del differente a partire dall’uguale. Una
discendenza evolutiva. Un processo di generazione e filiazione (le scene di
parto alieno) che riflette sulle contradditorie dinamiche tra creatori e creati,
tra padri e figli (“Tutti vogliono veder morire i genitori” spiega
l’androide). Così gli Ingegneri forgiano la specie umana (come il Prometeo del
mito greco la plasmò dal fango) per poi tentare di sterminarla. L’uomo
costruisce esseri sintetici posti sotto il suo controllo, ma di cui presto diventa
vittima: l’androide David penetra nei sogni e nei ricordi altrui, sperimenta
mutazioni sul corpo umano. Ne nasce un contagio, una regressione, un virus che
colpisce significativamente nel campo del visibile (l’immagine degli occhi arrossati,
liquidi e malati dello scienziato). Tutto ciò che appare estraneo, radicalmente
ai margini, si scopre essere parte integrante della nostra realtà, in un gioco sistematico
di ricongiungimenti e sovrapposizioni (il codice genetico di umani e alieni che
corrisponde perfettamente, le incisioni di epoche, culture, popoli diversi che
rappresentano la stessa mappa stellare).
Buon ritmo e suggestive
invenzioni visive, con il 3D che funziona a dovere nel modellare ologrammi e
futuristiche mappature virtuali. Scott si muove agevolmente tra gli spazi
chiusi della nave spaziale, dove dominano il bianco delle pareti e il giallo
soffuso delle luci, e l’ambiente esterno, la piramide aliena, con le tinte
bluastre delle sue cripte e cunicoli (la catacomba degli Ingegneri). La
tensione serpeggia costante, anche se siamo lontani dalla suspense in agguato
ad ogni angolo e dal terrore claustrofobico di Alien. Qualche enigma viene svelato (l’identità dello Space Jockey fossilizzato al comando
della navetta in Alien), ma bisognerà
aspettare un sequel, o forse più di
uno, per riempire i buchi di una sceneggiatura spesso troppo debole e frettolosa.
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