giovedì 28 febbraio 2013

Prometheus (2012) - di Ridley Scott


Anno 2093. L’equipaggio della nave spaziale Prometheus è in viaggio verso un pianeta che potrebbe custodire il segreto della creazione umana. Due scienziati della spedizione hanno infatti scoperto, in varie parti del globo, una serie di pitture rupestri, raffiguranti alcuni misteriosi giganti intenti a indicare una mappa di stelle. Persuasi del fatto che si tratti di un invito di questi esseri, chiamati “Ingegneri”, ad essere raggiunti nello spazio, i due si preparano ad un incontro rivelatore, ma le cose non andranno come previsto...

La grande attesa per l’uscita di Prometheus ha destato curiosità e dubbi: sarà davvero un prequel di Alien, in grado di far luce sui misteri lasciati insoluti dal film del ’79? Si tratta di aspettative in realtà fuorvianti. Prometheus non è il preludio ad Alien, quanto una sua variazione sul tema (arrivo sul pianeta sconosciuto, scontro con l’alieno, tentativo di fuga), una ramificazione a partire da una radice comune. Un prodotto derivato dalla stessa sostanza. Alla base di tutto sta infatti un fattore biologico, un legame genetico. Ecco allora il prologo con i filamenti del Dna dell’alieno, che si spezzano e si sciolgono nelle profondità dell’acqua, originando le prime cellule batteriche da cui prenderà forma la vita sulla Terra (“Tutte le grandi cose hanno piccoli inizi” dirà l’androide David). L’alieno si disintegra ingerendo un misterioso liquido nero: siamo forse il risultato di una reazione chimica imprevista, un rigetto vomitato fuori? 


Ridley Scott, o il moderno Prometeo. Il regista torna a riflettere sulla formazione del diverso a partire dall’identico, sulla produzione del differente a partire dall’uguale. Una discendenza evolutiva. Un processo di generazione e filiazione (le scene di parto alieno) che riflette sulle contradditorie dinamiche tra creatori e creati, tra padri e figli (“Tutti vogliono veder morire i genitori” spiega l’androide). Così gli Ingegneri forgiano la specie umana (come il Prometeo del mito greco la plasmò dal fango) per poi tentare di sterminarla. L’uomo costruisce esseri sintetici posti sotto il suo controllo, ma di cui presto diventa vittima: l’androide David penetra nei sogni e nei ricordi altrui, sperimenta mutazioni sul corpo umano. Ne nasce un contagio, una regressione, un virus che colpisce significativamente nel campo del visibile (l’immagine degli occhi arrossati, liquidi e malati dello scienziato). Tutto ciò che appare estraneo, radicalmente ai margini, si scopre essere parte integrante della nostra realtà, in un gioco sistematico di ricongiungimenti e sovrapposizioni (il codice genetico di umani e alieni che corrisponde perfettamente, le incisioni di epoche, culture, popoli diversi che rappresentano la stessa mappa stellare).

Buon ritmo e suggestive invenzioni visive, con il 3D che funziona a dovere nel modellare ologrammi e futuristiche mappature virtuali. Scott si muove agevolmente tra gli spazi chiusi della nave spaziale, dove dominano il bianco delle pareti e il giallo soffuso delle luci, e l’ambiente esterno, la piramide aliena, con le tinte bluastre delle sue cripte e cunicoli (la catacomba degli Ingegneri). La tensione serpeggia costante, anche se siamo lontani dalla suspense in agguato ad ogni angolo e dal terrore claustrofobico di Alien. Qualche enigma viene svelato (l’identità dello Space Jockey fossilizzato al comando della navetta in Alien), ma bisognerà aspettare un sequel, o forse più di uno, per riempire i buchi di una sceneggiatura spesso troppo debole e frettolosa.

Nessun commento:

Posta un commento