giovedì 28 febbraio 2013

Cogan - Killing them softly (2012) - di Andrew Dominik





Un paesaggio urbano degradato, sporco, prosciugato come un deserto. Un panorama umano ancora più arido, disfatto, vuoto e isolato. Sono scenari, quelli di Cogan - Killing them softly, che illlustrano lo sfaldarsi di ogni possibile contatto umano e affettivo. L’incrinarsi definitivo di qualunque rapporto basato su onore, rispetto reciproco, comprensione, amicizia, fiducia. Sullo sfondo di una crisi che ha fatto a brandelli il tessuto sociale. 


Fiducia, volontà e capacità di aprirsi all’altro, agli altri; mettersi d’accordo, stipulare patti e  contratti: ecco cosa viene negato in modo incontrovertibile nella periferia suburbana descritta da Andrew Dominik. Nessuno si fida più degli altri. Non ci sono certezze, nessuno offre garanzie. Johnny Amato (il Vincent Curatola dei Soprano), piccolo boss di quartiere, non si fida ad affidare la rapina allo sballatissimo Russell (un perfetto Ben Mendelsohn). Markie Trattman (Ray Liotta), il mafioso padrone della bisca, non gode più della fiducia dei capi. Non ha più credenziali, ha perso credibilità anche se innocente. Il sicario Cogan (Brad Pitt) scopre di non potersi fidare del vecchio partner Mickey (James Gandolfini), e lo fa imprigionare con l’inganno. Mickey stesso si mostra diffidente con Cogan. Sospetta che si porti a letto le sue donne alle sue spalle. Inoltre la moglie lo sta per lasciare, perché non crede più a false promesse. Il criminale Frankie, che tradisce il boss sperando di aver salva la vita, è l’unico a confidarsi con Cogan, e non a caso finisce con una pallottola in testa. 

Unico tramite tra le persone sono i soldi. Ogni vincolo, legame o relazione si base su passaggi e scambi di denaro (“Pagami, l’America non è un paese. E’ solo affari” si dice nel finale del film). Per tutto il resto si mantiene un distacco, si pone una distanza. Quella che Cogan mette tra se è le vittime che uccide, per stare lontano dalle emozioni, dal dolore, da quella malinconia “stucchevole” che lo scombussola di fronte a chi gli implora di risparmiarlo. 
La tesi di fondo (le leggi del mondo criminale equivalenti a quelle del capitalismo più feroce) è però ripetuta in modo troppo didascalico e poco originale, attraverso le voci dei dibattiti politici alle soglie dell’elezione di Obama

E’ invece nelle scene apparentemente più scarne e banali che Dominik da il meglio di sé, riuscendo a inquietare e a far passare il desolante messaggio. Si prenda la sequenza in cui Cogan è a colloquio con Mickey, nella stanza d’albergo in cui quest’ultimo ha appena fatto sesso con una prostituta. La donna si sta rivestendo e chiede a Cogan di riallacciarle la cerniera del vestito. Cogan rifiuta con un secco no, invitandola a rivolgersi al “suo cliente” per chiudere la zip. Esempio perfetto del meccanismo perverso per cui non si fa davvero più niente per nessuno, nemmeno il gesto più insignificante, senza che ci siano di mezzo dei soldi o un tornaconto personale. 
Non c’è umanità. La criminalità, come la politica e la vita, è regolata da un rapporto marcio tra azienda e cliente, committente ed esecutore, domanda ed offerta. Un sistema che non ammette errori o indecisioni, e che non esita a perfezionare gli esuberi (gli omicidi) per recuperare le perdite. La prostituta è l’unica presenza femminile in un contesto di dominio oppressivo totalmente maschile. 

Ma a ben guardare è tutt’intorno che impera un sistema di prostituzione imperante su scala generale: il nefasto rapporto clientelare con il dio denaro (Cogan non è altro che una prostituta di cui si servono i mafiosi). Del resto, la purezza è impossibile, se anche Thomas Jefferson era uno schiavista, come si dice in un punto. E Cogan cammina impassibile, seguito in carrellata, a fianco delle scintille di alcuni fuochi d’artificio, calpestando per sempre le stelle lucenti del Sogno Americano. 

Dominik filma i personaggi inchiodandoli alla loro solitudine mortificante. Praticamente assenti campi e controcampi nei dialoghi e nei momenti di confronto (in macchina, a tavola, in albergo, al bar), che pur costituiscono la sostanza del film. Non c’è reale comunicazione, ci sta dicendo. Il regista predilige volti in primo piano, inquadrature frontali e laterali alternate alle riprese da dietro dei personaggi. Sempre tratteggiati di profilo come in un album di foto segnaletiche, quasi senza profondità, schiacciati e appiattiti nel loro isolamento esistenziale.  

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