La storia di Metropolis (1927) è innanzitutto quella del travagliato percorso delle numerosi versioni del film succedutesi nel tempo. Tagli, ce(n)sure, bobine
scomparse, ritrovamenti, innesti e recuperi (l’ultimo a Buenos Aires nel 2008,
una copia in 16
mm) che oggi ci permettono di apprezzare il film
nella versione più completa, l’originale così come era stato concepito e
montato da Fritz Lang.
L’innovativa (per l’epoca) potenza visiva delle
immagini, le visionarie architetture futuristiche, che hanno fatto scuola in
tanta fantascienza (Blade Runner, 1982, Brazil, 1985), mantengono immutato il loro fascino.
L’estro registico di Lang emerge nell’uso consapevole del flashback
(la leggenda della Torre di Babele) e del montaggio alternato (l’angoscioso
sogno di Freder mischiato allo spettacolo lussurioso del robot-Maria). Nella
grande padronanza di dissolvenze (il robot che prende
vita, la macchina-Moloch che ingoia gli operai) e suggestive sovraimpressioni
(gli occhi ammaliati, rapiti che quasi toccano il corpo di Brigitte Helm al
ballo dei ricchi). Nelle inquadrature oblique dall’alto dei
grattacieli (in realtà si tratta di modellini cartonati ingigantiti da una
serie di specchi), la vertigine percettiva di Metropolis. Nell’immobilità
frontale che schiaccia gli schiavi nelle riprese della città dei lavoratori. L’alto
e il basso, su e giù, continua discesa e risalita (ritroviamo spesso gli ascensori:
nelle fabbriche, negli appartamenti).
La morale di fondo, pacificazione
e solidarietà fraterna tra individui, suona po’ datata e inattuale, quasi da
operetta di formazione. Le riflessioni sul rapporto uomo-macchina e sul ruolo
della tecnologia nella società dell’avvenire sono invece di grandissimo
impatto: la macchina è viva, pulsante (la macchina-cuore), va nutrita, si ciba
del corpo dell’uomo, del suo lavoro frenetico, va lubrificata con sangue,
sudore, carne umana. Grande importanza assume il tema del tempo. Assoggettare
l’uomo, negargli la libertà, significa rubare il suo tempo, il tempo per la
vita e gli affetti. Joh Fredersen, il signore di Metropolis, è prima di tutto
il padrone del tempo, colui che lo regola e lo scandisce a proprio vantaggio.
L’unico tempo riconosciuto è quello del lavoro, e gli operai altro non fanno se
non muoversi sull’asse del tempo loro imposto (spostano leve e lancette
sull’orologio che segna le dieci ore del turno lavorativo).
Fuori da questo ciclo impazzito
trovano spazio solo i Giardini Eterni, sorta di etereo
paradiso bucolico con tanto di ninfe, e la casa del delirante inventore Rogwan,
quasi una fiabesca e a-temporale dimora dell’orco delle favole (non a caso
descritta come una casa “dimenticata dal tempo”).
Fredersen è anche il padrone
della luce. Produce energia e succhia elettricità dalle profondità della
terra per illuminare la sua Metropolis. Anche a livello figurativo, la luce
gioca un ruolo fondamentale. La fotografia di Karl Freund rimane in bilico tra atmosfere ancora espressioniste
(la grotta in cui Rogwan rapisce Maria, il sogno e i bagliori allucinatori di
Freder) e una messinscena più realista fatta di bianchi e neri contrastati
(il bianco lucente dei Giardini Eterni, dei vestiti di Freder, il volto candido
di Maria, il nero della massa anonima dei lavoratori, le ombre scure che
segnano il viso di Frederson, Rogwan). Maestosa e prorompente la partitura
originale di Gottfried Huppertz nelle sequenze di maggiore afflato epico.
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