lunedì 26 maggio 2014

Maps to the Scars


Dopo Cosmopolis (2012), un altro film di Cronenberg inizia in un parcheggio, con due personaggi a discutere di limousine. “Ne avevo richiesta una allungata” sollecita la pallida Agatha Weiss (Mia Wasikowska) appena sbarcata ad L.A. “Nessuna era disponibile” spiega l’autista. È Robert Pattinson, che dalla culla tecnologica del sedile-divano di Cosmopolis  passa al volante per traghettarci a bordo del nuovo universo cronenberghiano. All’incrocio di traumi e comparse fantasma, residui malati e schegge di un immaginario hollywoodiano triturato e restituito in frantumi. Partendo proprio da Pattinson, morto miliardario e risorto autista di divi. Giù dalla limo e dentro la macchina-cinema. Microcosmo ovattato al riparo di gusci fintamente protett(iv)i (set, roulotte, interni di lusso). Tra figure dolenti dietro vetri oscurati (l’amplesso di Pattinson con la sfiorita Julianne Moore sui sedili dell’auto replica quello con Juliette Binoche di Cosmopolis) e nidi familiari allo sfacelo acquattati all’ombra delle palme di Beverly Hills. La mappa delle stelle è costellazione di cicatrici ed esistenze devastate, percorso accidentato sopra l’inferno e non cammino verso la fama. Cronenberg somministra alla fabbrica degli incubi il medesimo trattamento riservato alla psicanalisi (A Dangerous Method, 2011) e alla crisi finanziaria (Cosmopolis): messinscena gelida e narcotizzata, somma di campi e controcampi estenuanti, venati di inquietudine e di un’ironia ancor più corrosiva e straniante perché deliberatamente fuori luogo. Il mondo delle produzioni cine-televisive è dissezionato regredendo alle forme della sua piatta e indiscriminata inconsistenza, fra registri umorali e stridenti, in un sincretismo ridicolo che mescola soap opera e film d’autore, attrici sul viale del tramonto e enfant prodige intossicati, statuette dorate e merda d’artista.

Maps to the Stars è una cartella clinica di ossessioni terminali. Volutamente senza uno stile definito, non collocabile in alcun genere. Anzi, i generi li svuota e (tra)sfigura tutti, come chiariscono i personaggi stessi. “Evita le frasi da film noir” rimprovera Stafford Weiss ad Agatha, chiamata Dorothy (la protagonista de Il mago di Oz, 1939) quando obbligata ad abbandonare il luccicante regno dei sogni. Così come il fantasma di Clarice Taggart (Sarah Gadon) si prende gioco della figlia sfidando le regole del thriller soprannaturale (“Non penserai di essere ne Il sesto senso”). La sterilità ammorbante di un cinema defunto, l’impossibilità di girare un remake  (Stolen Water per  Havana Segrand o il seguito di Bad Babysitter per Benjie Weiss) o di partorire una sceneggiatura certificano il fallimento e l’autodistruzione di vite che non possono svoltare. Trascinate in basso da demoni non scongiurabili attraverso la finzione, deus ex machina che ingoia corpi e li rigetta cadaveri, annegati in piscina o arsi vivi tra le fiamme. 

In Maps to the Stars il cinema diviene materia inerte, depotenziata, incapace di proiettare ferite e di suturarle. Di visualizzare, dare forma ed esorcizzare i fantasmi dell’inconscio collettivo. Havana Segrand (Julianne Moore), guardando vecchi film in bianco e nero, sogna la reincarnazione nel corpo attoriale della madre e un’impossibile rinascita artistica. Forse vorrebbe penetrare o lasciarsi penetrare dalle immagini come il Max Renn di Videodrome (1983), ma resta al di qua dello schermo. Stafford Weiss (John Cusack), il terapista-guru, prova a liberare rabbia e aggressività latenti nel corpo di Havana, ma sembra la degenerazione new-age del dottor Raglan di The Brood (1979), o una caricatura da talk-show del rigoroso Jung di A Dangerous Method (con riferimento all'Imago Dei). Solo la sfregiata Agatha Weiss, rimosso che torna in asettici guanti neri, riesce ad aprire più di uno squarcio dentro il letale incesto tra star-system e abusi familiari. Elemento estraneo e perturbante, pulsione schizofrenica che scoperchia le certezze del sogno americano. Spandendone ovunque il fetore putrescente (Havana si lamenta per la puzza), stillandone le macchie di sangue (il ciclo sul divano). Riflettendone il volto autentico, butterato, ustionato e purulento, senza ricorrere al make up. L’unico sul quale Cronenberg scelga di riversare la fotografia ripulita e luminosa, quasi da tavolo anatomico, di Peter Suschitzky. Gettando ancor più luce sui buchi neri di questa galleria crepuscolare di stelle marce e (de)cadenti. 

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