Ogni film che annoveri nel cast
l’ingombrante presenza iconica di Woody Allen si prende un rischio: quello di
diventare facilmente, nella percezione e nelle attese del pubblico, un film
“di” Woody Allen a tutti gli effetti, anche quando trattasi di progetto scritto
e/o diretto da terzi, nel qual caso Gigolò
per caso di John Turturro. L’effetto è duplice. Se da un lato
ci si assicura credito immediato presso la platea ampia e trasversale affezionata
alla comicità del genio newyorkese (in questo senso, fin dal trailer Gigolò per caso regala pillole a ripetizione dell’Allen mattatore
umoristico), dall’altro si rischia di appoggiarsi esclusivamente alla sua performance nel costruire il film, e
quindi valutarne la riuscita complessiva, trascurando la presenza di una
sensibilità registica e stilistica altra (per quanto magari affine, con Turturro
cresciuto come Allen tra gli isolati di Brooklyn).
Si fa questa premessa per scoprire che
Fading Gigolò è invece un film ascrivibile
a pieno titolo a John Turturro, infuso del suo carisma attoriale misurato ma tosto,
sempre attento a non lasciarsi fagocitare dalla presenza straripante di Allen.
Turturro ne ingaggia le nevrotiche prestazioni sopra le righe per poi farsi
avviare dal suo alter ego Dan Bongo al mondo del ménage a pagamento, e da lì cercare una personale strada (registica).
Sotto il segno di una teatralità smaccata. Il mestiere più antico del mondo sembra essere la simulazione. La performance a
letto è sess(i)o(ne) attoriale, recita in “anteprima privata” di un sicuro
successo con le donne (“I’m just a gigolò/and everywhere I go/people
Know the part I’m playing” canta Louis Prima nel trailer).
Se i primi minuti seguono un andamento da commedia pura,
imperniato sulle gaffe della strana coppia alle prese con l’azzardo della
prostituzione part-time, pian piano emerge una dimensione più intimamente malinconica. Temperata
dall’ironia e da parentesi di grottesco ispirate ai fratelli Coen (presso i
quali Turturro ha effettuato molto del suo apprendistato artistico): Bongo
fronteggia impaurito i tre rabbini del tribunale ebraico ortodosso quasi fosse il
Larry Gopnik di A Serious Man, 2009.
Nondimeno resta ficcante la descrizione di una solitudine metropolitana
fatta di appartamenti, stanze, quartieri e gruppi sociali non comunicanti. Individui
che si riconoscono nella loro disperazione discreta (Fioravante/Virgil abbordato
da una sua avvenente “collega”), guardandosi (“Tu mi vedi dentro” confessa la giovane
vedova Avigal prima di togliersi la parrucca, l’habitus sociale), senza però arrivare a toccarsi. Le mani di
Fioravante sulla schiena di Avigal subito scatenano il pianto e la paura di
scoprirsi (ancora vivi). È la stagione (immutabile?) dei sentimenti sbocciati per
appassire all’istante, come i fiori del protagonista. Anche la spiegazzata Sharon
Stone è versione sbiadita della mangiauomini fatale di Basic Instinct, alla quale non basta più accavallare gambe per
prostrare uomini ai suoi piedi, ingraziati a suon di mance e cioccolatini.
Rapporti interrotti e amori a rapida dissolvenza (fading, appunto). La stessa dell’immagine in pellicola, che
nell’incipit passa dalla fotografia sgranata e ingiallita di una New York
autunnale rimembrata con nostalgia allo scenario attuale, pervaso di luce
limpida e (ri)pulita ma certo più anaffettiva. Con lo scarto d’epoca saldato
nella bottega di libri antichi in procinto di chiudere. In mezzo si è persa
tanta, autentica Passione. Quella che Turturro prova a restituire con le
vibrazioni del percorso melodico, vero sottotesto emotivo, tra cadenze jazz
alleniane, lo Sway di Dean Martin, i
passi latini a braccetto con la Vergara, con il culmine nell’interpretazione vernacolare di Vanessa Paradis di Tu si’ ‘na cosa grande di Modugno. Innamorarsi, il mestiere più antico del mondo.
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