venerdì 8 agosto 2014

Primati digitali



Cos'hanno in comune Autobot e scimpanzé, il capobranco Cesare e Optimus Prime? In verità, più di quanto non si possa a prima vista sospettare. Nel deserto ad aria condizionata che diventa la multisala estiva, Transformers 4 – L’era dell’estinzione di Michael Bay ed Apes Revolution - Il pianeta delle scimmie di Matt Reeves, oltre a contendersi incontrastati il botteghino, si incaricano di fare il punto su statuto e resistenza del concetto di umano in uno scenario insediato da elementi ugualmente pre e post-umani, come in effetti sono sia i Transformers che le scimmie antropomorfe. Entrambi, come illustrato dalle rispettive cine-genealogie, colonizzarono il pianeta prima dell’uomo e ritornano ora per decretarne il suo superamento, tutt’altro che pacifico. Ma c’è di più. Oltre l'esile dimensione narrativa, i due blockbuster trattano la questione del post-umano rappresentando la gestione delle risorse artificiali e dell’arsenale tecnologico contemporaneo, innanzitutto mezzi e modalità del cinema, armi potenti ma pericolose se poste nelle mani sbagliate (tema centrale delle due opere). 




Transformers 4 ed Apes Revolution, uniti nella preminenza accordata al digitale, sono in realtà animati da due ideologie diverse, filtrate proprio nel diverso impiego della tecnica. Il digitale iconoclasta di Bay è amplificato a dismisura per allontanarsi il più possibile da una concezione antropocentrica dell’immagine, della messa in scena (del cinema stesso) e, parallelamente, da un’impostazione centrifuga della messa in movimento. L’immagine si rincorre, schizza, libra e si schianta sullo schermo come un fuoco artificiale, sganciata dall’ancoraggio a una qualsiasi identificazione partecipante, retaggio di un cinema di icone di ferro (il John Wayne di El Dorado nella sala disfatta) scomparso nel frastornante ma sordo rimbombo metallico dei giocattoloni Hasbro.

Apes Revolution  si muove in direzione opposta. Verso una prospettiva di assimilazione, di avvicinamento mimetico alla patemica umana dietro la fisiognomica digitale (le movenze in motion e la micromimica in performance capture  di Andy Serkis/Cesare e relativo branco), spingendo verso la completa identificazione emotiva con le creature, rafforzata anche dalla decisa virata verso una dimensione familistica e filiale. Per questo le inquadrature privilegiano format del cinema classico, con i puntuali campi/controcampi nei dialoghi tra scimpanzé e gli intensi e insistiti primi piani su Cesare e compagni. 

Anche nella concitazione delle sequenze di battaglia c’è un punto in cui la camera sceglie di restare agganciata a un punto di vista tipicamente umano: la breve semi-soggettiva dal carro armato su cui troneggia lo scimpanzé ribelle Koba, che dura abbastanza per divenire significante. Toccata e fuga dell'altrimenti anonimo Reeves regista di Cloverfield, che con questo brevissimo P.O.V. dal centro del caos si cita e al tempo stesso si sconfessa. Lo sguardo frammentato e parziale, traballante eppure fermo della camera monoculare si fa ambiguo testimone dell’umano filtrato attraverso gli occhi della scimmia (o è il contrario?). Sguardo compenetrato che diventa doppio, liquido e indistinguibile anche negli zoom all’indietro (incipit) e in avanti (finale) verso le pupille di Cesare, che hanno il riflesso sinistro di quelle del generale Thade del Planet of the Apes di Burton.


A Michael Bay non interessano nemmeno incroci e sovrapposizioni di sguardo. Più che su un post-umano, riflette su un cinema non (più) umano che prospetta da sé la propria riparazione/sostituzione nell’alveo della ricostruzione in CGI. Le cui potenzialità si avvertono e si vogliono illimitate, eccessive, assolute, non addomesticate, ed è la ragion d’essere di un cinema provocatoriamente e consapevolmente smisurato fino all’esagerazione. Il primato del digitale che non ha bisogno di null’altro che per (ri)prodursi e (ri)produrre cinema. 

Apes Revolution è ancora all’opposto, ma in modo ambiguo e decisamente sottile. Da un lato resta fedele a una dimensione umanista del cinema, a partire dai corpi attoriali in tuta che prestano emozioni e fisicità ai primati digitali. Dall’altro la mette radicalmente in crisi, svelando la congenita debolezza dell'uomo e il suo possibile tramonto nella dipendenza vitale dalle risorse artificiali. Le scimmie sembrano destinate all’evoluzione proprio perché non sperimentano la dimensione tutta umana del bisogno e della mancanza (di luce, energia, riscaldamento).  Non fosse per la performance di Andy Serkis, finirebbero per (ri)prodursi da sole, come Transformers qualunque sul green screen. Tra l’era dell’estinzione e l’alba di nuove specie, quale cinema prenderà il sopravvento sul pianeta blockbuster è ancora impossibile dirlo con certezza. La guerra, comunque, è stata dichiarata.

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