venerdì 18 luglio 2014

Titani in (rottam)azione



«Dov’è Optimus Prime?» è la domanda che pressa fin dal trailer. E infatti il leader degli Autobot, almeno a partire da Transformers 3, ha sempre qualcuno a braccarlo. Qui accade che a stanarlo arrivi chi non lo ha mai cercato (come Sam Witwicki con Bumblebee nel primo Transformers). Ma è il dove che ci interessa. Una sala cinematografica in disfacimento, proiettori arcaici, poltrone logore e ammuffite, locandine d’annata e cumuli di cianfrusaglie sotto lo schermo. Con buona pace di chi pensa che neanche per sbaglio Michael Bay possa azzardare una riflessione metalinguistica, la carcassa arrugginita di Optimus sta proprio lì, in mezzo ai detriti dell’immaginario. La riparazione del robot diventa parallelamente restyling, implementazione del prodotto-cinema concepito da Bay.

Transformers 4 – L’era dell’estinzione non funge soltanto da mutazione ultima del film d’evasione. Ne è l'incessante rottamazione visiva, il suo continuo ripensamento produttivo e concettuale. Il garage-capannone di Cade Yeager come foltissimo set della creazione cinematografica, dove non mancano gingilli come gli obiettivi Zeiss. L’inventore Cade che smonta e rimonta ferraglie ripristinando Optimus Prime è Michael Bay che riassembla e modifica pezzi del blockbuster americano. Rianimandolo ogni volta con i cavi di una batteria di scontri ed effettistica sempre più sterminata. Un progressivo upgrade dell’entertainment d’azione e del suo immaginario monstre, che trova il suo climax nei dinosauri spielberghiani (inconfondibile l’esoscheletro dello Spinosauro) evoluti in creature metalliche domate dal robot umanizzato (Optimus), non ancora dominabili dall’uomo tecnologizzato (il tycoon Joyce di Stanley Tucci, variante isterico-ironica dell'agente Simmons dei primi tre film).

Come attesta il prologo, nell’era dell’estinzione (di massa) di ogni differenza ontologica realtà/simulacro, il cinema di Michael Bay, roboante ruggito digitale, ritorna al caos ibrido di un titanismo preistorico (dimensione introdotta già nei capitoli precedenti, con il Megatron fossile di ghiaccio del primo Transformers o gli scontri coi primati dell’incipit di La vendetta del caduto). Un Big Bang ipercinetico di superfici pixellate cozzante nelle armature degli Autobot fino alla massima erosione dei sensi dello spettatore. Bay manipola gli elementi come le molecole di transformio tra le mani di Stanley Tucci. Un sostrato metamorfico a base sci-fi che accumula figure e suggestioni da altri generi, dalla combriccola di Autobot in stile western crepuscolare, con l’automa-samurai che recita haiku e combatte in cappa e spada di metallo, fino agli inseguimenti rallystici ai limiti della fisica di Fast and Furious. 

Sullo sfondo, un laicissimo velo opaco sui Creatori misteriosi incubato fin dal secondo pannello della saga («Se Dio ci ha fatti a sua immagine… lui chi l’ha fatto?» diceva di Optimus Prime un soldato), con qualche prestito dal Prometheus di Ridley Scott. La macchina ribelle Optimus, gettando il ponte per un sequel, sembra quasi andare alla ricerca dei Grandi Antichi lovecraftiani nello spazio. Chissà che Michael Bay non decida in futuro di ripescare e rottamare anche quelli.

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