martedì 9 dicembre 2014

A kind of magic




Archiviate le nevrosi del crack finanziario e il dissesto morale del contemporaneo scelleratamente esaurito di Blue Jasmine (2013), Woody Allen si rituffa sul calar dei roaring twenties ritrovandovi il tempo perduto per l'appiglio a un’illusione ideale, e il tempo ideale per un'illusione perduta. Cinema-bolla, serbatoio inesausto di giochi di prestigio e coup de théâtre come salvifico inganno autoindotto.

«L’universo sarà anche privo di senso, ma non certo di magia». Magic in the Moonlight inganna fin da titolo e premessa. Distraendo con un trucco preliminare alla Scoop (2006). Ammiccando agli sfondamenti del reale, all’atmosfera sognante di un’epoca irripetibile, agli incantesimi dell’arte di un Midnight in Paris (2011) estivato in una Côte d'Azur di luminosità favolistica e tinte fitzgeraldiane. Con tanto di auto scorrazzante alla Gatsby. La medium rivestita del cognome di Jordan Baker (le mazze da golf si scorgono in una scena). Il triangolo (senti)mentale fra legami razionali e tentazioni dell’amour fou, rincarnazione occulta di quello fra Nicole-Dick-Rosemary in Tender is the Night.

La notte è foriera di presenze e fantasmi, solo più parchi di apparizioni e sostanza rispetto a Midnight in Paris. Il (jet) set cosmopolita d’altri tempi si sposta in riviera. Attraversato dalla stessa rieducazione sentimentale del «genio brillante» - lo sceneggiatore Gil e il mago Stanley - intrappolato nell’austera logica intransigente finché sedotto dall’inspiegabile attrazione naïf - lentraneuse d’artisti Adriana e l’incolto spiritismo yankee della sensitiva di Kalamazoo.

Con (relativa) sorpresa, si è invece ospiti della più pragmatica, cinica e pervicace commedia alleniana. Tra pigre tentazioni fideistiche e intatta sfiducia nichilista (non Dickens ma Nietzsche e Hobbes, con cui Stanley sarebbe andato d’accordo, ipse dixit). Lo scoramento degli intellettuali e la felicità degli stolti, la resistenza del reale e la necessità delle illusioni. Variante sardonica, smaltata e alleggerita dei cupi e sussiegosi ritiri altoborghesi di Settembre (1987), fra il quid ectoplasmatico di Scoop declassato a riserva di yogurt e il sempreverde bisogno di uova fresche di Io e Annie (1977). Con la fuga della coppia tra le stelle dell’osservatorio, al riparo dalla pioggia, citazione diretta del romanticismo malinconico nel planetario in controluce di Manhattan (1979).

Il punto di forza è nel cast brillantemente assortito fin nei ruoli secondari (irresistibili le punzecchiature british dell’attempata zia Eileen Atkins), ripescando tipizzazioni dell’Allen più recente. Jackie Weaver tardona credulona come la Gemma Jones di Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni (2010). Il mattatore Firth nuovo Splendini, più charming, meno borderline, dentro e fuori dal palco senza ricorrere allo smaterializzatore. Basta che funzioni la menzogna (in)consapevole. «È come assistere a un trucco di cui non capisco il segreto» dice Stanley di Sophie. 

È lo stesso piacere incantatore sprigionato dalle commedie di Allen, anche le più indisposte e meno ispirate. Il trucco va ripetuto. La solita magia. Temi e figure sempiterne di cui si conosce ogni mossa e battuta, ma che trasportano rapiti nel racconto dell’inganno, e nell’inganno del racconto. Se piace, battere un colpo. Se non convince, batterne due.

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