Per
una di quelle coincidenze impensabili perfino nell’universo eccedente della fiction – e che infatti, come beffardi
rimaneggiamenti del destino, più spesso accadono nella vita reale –, la triste
dipartita di Wes Craven alla vigilia della prima Tv USA - il 1° settembre 2015 su
Mtv America - del finale di stagione di Scream
– la serie in dieci episodi ispirata all’omonimo film del ’96, con il nostro in
veste di produttore esecutivo e imprescindibile spiritual guidance – ha lasciato un sapore particolarmente
amaro nell’elaborazione del lutto dei fan. E infonde inevitabilmente al serial
un’aura di curioso instant cult. Caricando
d’aspettative impreviste e conferendo al bathblood
e allo showdown risolutivi una
potenza e un senso drammatico ulteriori, senza dubbio superando le intenzioni
degli autori.
Non
c’è troppo da speculare su Scream
(la serie) come ultimativo lascito testamentario di ossessioni tematiche e
figurative di Craven. Anche perché è lui stesso ad aver insegnato che nell’implacabile
catena tagliacarne e tritatesti dei mostri seriali, tutto sopravvive alla
decomposizione di corpi, mode e generazioni. Finendo riesumato incessantemente
nel nastro inarrestabile di sequel, remake e spin-off, ancorché traslocati da
un medium all’altro. Lo sapeva Sidney Prescott sparando alla testa
dell’assassino “risorto” per l’ultima sferzata a sorpresa (Scream 2), come appunto si fa con gli zombie, non-morti e fantasmi
che a volte – praticamente sempre – ritornano. Lo sanno a ragion veduta sceneggiatori
freschi e giovanissimi spettatori di Scream
anno 2015. Entrambi consci di non potersi sottrarre alla ricorrenza del déjà
vu sanguinario di maschere e archetipi rimasticati. Ma altrettanto
consapevoli di vivere un momento storico che ha polverizzato leggi, regole, consuetudini
e modi di fruire la serialità, in una scena del crimine mai così fitta e
diversificata.
La
sfida (ri)proposta da Scream in Tv non
può che inseguire quella del suo stretto parente cinematografico: scampare alle
trappole di un meccanismo narrativo ben oliato e di una materia cinefila pluri-inflazionata,
che si crede di padroneggiare a menadito e impunemente e che invece rischia di stritolare
chi la maneggia e chi la subisce (lo spettatore passivo che affossa gli
ascolti), finendo inchiodato al ruolo di vittima dell’ingranaggio slasher che ci si illudeva di proiettare
comodamente sugli altri, gli attori-burattini di una masturbazione finzionale
protetta. Fallivano in questo i killer antesignani del primo Scream, maniaci seriali destinati
all’errore per non aver letto l’ultima pagina del copione, quella dove il lone survivor ha la meglio sui cliché stravisti
e le possibili novità introdotte dal metathriller di fine secolo.
Qui
invece sembra che la lezione sia stata imparata da un killer showrunner che – pur (ri)mettendo al
centro del progetto la star, Willa Fitzgerald, la smart girl un po’ frigida, in crisi col fidanzato, diretta erede di
Sidney Prescott, - segue strategie personali
e un disegno tutto suo, frustrando previsioni e scalette dei preparatissimi cinefili
nerd come Noah Foster, che mandano a memoria segnaletica e precedenti dell’immaginario
horror. Il gioco metalinguistico, i rimandi e le esche citazioniste avranno
scarso credito stavolta – almeno per la definizione dei moventi -, e quasi si
esauriscono col pregevole Pilot, non
a caso l’unico episodio su soggetto di Kevin Williamson, il creatore della
serie storica, a cui si chiede – prima di passare la mano - di riformulare la
domanda di fondo connessa alla struttura del serial. Annegando la questione in un lago notturno prelevato da So cosa hai fatto (1997), sulla nenia cantilenante che cita l'HAL 9000 di 2001.
Oggi
però non si conosce nulla a priori. Non si segue per forza uno schema. Il
problema non è più sopravvivere dentro un horror-thriller, le accortezze da
seguire e i passi falsi da evitare - tant’è vero che si può restare soli e
isolati e sfangarla comunque, in abbondanza di suspense fuorvianti e falsi finali. Nemmeno è più una questione di
aggiornamento ai tempi, metabolizzato l’upgrade filmico e tecnologico di Scream 4 – da cui si pesca l’overdose
di virale, social, sex-taping e texting compulsivo, e di cui basterebbe
il prologo a scatole cinesi per scoraggiare qualsiasi ulteriore «metacazzata post-moderna». La questione è un’altra. Seguendo il
modo in cui Bates Motel e Hannibal cannibalizzano i classici, American Horror Story e The Walking Dead parcellizzano un gothic rimodernato fondendo Walpole e
George A. Romero, è possibile (man)tenere in vita in Tv uno slasher dilazionato, un massacro a
scaglioni, diffuso senza disperdere zannate di violenza furibonda e tensione
ansiogena insostenibile, vale a dire i pilastri portanti di un genere di fiammate
paurose a rapida estinzione e narrazione a combustione rapidissima, restando partecipi
dell’affezione ai personaggi e ambigui complici del desiderio scopico e
scopofilo di guardarli morire?
Ogni
episodio di Scream tenta di offrire
una risposta e superarsi nel (ri)percorrere questo brivido, sparigliando carte
e certezze su whodunit e whydunit nel procedere orizzontale. La
maschera di un Ghostface ancora informe ha qualcosa di rozzo e meno rifinito, di
un terrore più sinistramente primitivo e infantile dell’originale – prendendo
anche da Leatherface, se necessario, per una delle esecuzioni più splatter.
Funzionale
al recupero di una dimensione di rimossi e orrori familiari piccolo-borghesi,
di una faida da neighbourhood con echi
ancestrali – e krugeriani - tra le mostruosità del normale e la cacciata dei
melanconici diversi prelevata dal primo Craven. E che attraversa
sotterraneamente, under the stairs, tutta
l’evoluzione narrativa, con un ritorno alle origini che diventa omaggio
involontario e sa di perfetta chiusura del cerchio per l’uscita di scena del
regista di Cleveland.
Senza
mai trascurare il goliardico e divertito romance
adolescenziale declinato a più coppie, che spicca nei volti nuovi del teen-trash Usa - l’impacciato geek John Karna e la bitchy
blonde Carlson Young, entrambi prelevati da Io vengo ogni giorno -, azzeccando tutto il campionario di facce
per l’ambientazione high-school. Scelte
di casting che Craven ponderava con cura, e che avrà certamente avallato anche
stavolta. Lui che più di tutti sapeva come i personaggi, prima di finire
orrendamente ammazzati davanti ai nostri occhi, debbono almeno essersi amati e fatti
amare, fosse soltanto per una notte o il tempo di una puntata.
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