giovedì 25 febbraio 2016

Serialità all'ultimo grido: Scream




Per una di quelle coincidenze impensabili perfino nell’universo eccedente della fiction – e che infatti, come beffardi rimaneggiamenti del destino, più spesso accadono nella vita reale –, la triste dipartita di Wes Craven alla vigilia della prima Tv USA - il 1° settembre 2015 su Mtv America - del finale di stagione di Scream – la serie in dieci episodi ispirata all’omonimo film del ’96, con il nostro in veste di produttore esecutivo e imprescindibile spiritual guidance – ha lasciato un sapore particolarmente amaro nell’elaborazione del lutto dei fan. E infonde inevitabilmente al serial un’aura di curioso instant cult. Caricando d’aspettative impreviste e conferendo al bathblood e allo showdown risolutivi una potenza e un senso drammatico ulteriori, senza dubbio superando le intenzioni degli autori.

Non c’è troppo da speculare su Scream (la serie) come ultimativo lascito testamentario di ossessioni tematiche e figurative di Craven. Anche perché è lui stesso ad aver insegnato che nell’implacabile catena tagliacarne e tritatesti dei mostri seriali, tutto sopravvive alla decomposizione di corpi, mode e generazioni. Finendo riesumato incessantemente nel nastro inarrestabile di sequel, remake e spin-off, ancorché traslocati da un medium all’altro. Lo sapeva Sidney Prescott sparando alla testa dell’assassino “risorto” per l’ultima sferzata a sorpresa (Scream 2), come appunto si fa con gli zombie, non-morti e fantasmi che a volte – praticamente sempre – ritornano. Lo sanno a ragion veduta sceneggiatori freschi e giovanissimi spettatori di Scream anno 2015. Entrambi consci di non potersi sottrarre alla ricorrenza del déjà vu sanguinario di maschere e archetipi rimasticati. Ma altrettanto consapevoli di vivere un momento storico che ha polverizzato leggi, regole, consuetudini e modi di fruire la serialità, in una scena del crimine mai così fitta e diversificata.

La sfida (ri)proposta da Scream in Tv non può che inseguire quella del suo stretto parente cinematografico: scampare alle trappole di un meccanismo narrativo ben oliato e di una materia cinefila pluri-inflazionata, che si crede di padroneggiare a menadito e impunemente e che invece rischia di stritolare chi la maneggia e chi la subisce (lo spettatore passivo che affossa gli ascolti), finendo inchiodato al ruolo di vittima dell’ingranaggio slasher che ci si illudeva di proiettare comodamente sugli altri, gli attori-burattini di una masturbazione finzionale protetta. Fallivano in questo i killer antesignani del primo Scream, maniaci seriali destinati all’errore per non aver letto l’ultima pagina del copione, quella dove il lone survivor ha la meglio sui cliché stravisti e le possibili novità introdotte dal metathriller di fine secolo.

Qui invece sembra che la lezione sia stata imparata da un killer showrunner che – pur (ri)mettendo al centro del progetto la star, Willa Fitzgerald, la smart girl un po’ frigida, in crisi col fidanzato, diretta erede di Sidney Prescott, -  segue strategie personali e un disegno tutto suo, frustrando previsioni e scalette dei preparatissimi cinefili nerd come Noah Foster, che mandano a memoria segnaletica e precedenti dell’immaginario horror. Il gioco metalinguistico, i rimandi e le esche citazioniste avranno scarso credito stavolta – almeno per la definizione dei moventi -, e quasi si esauriscono col pregevole Pilot, non a caso l’unico episodio su soggetto di Kevin Williamson, il creatore della serie storica, a cui si chiede – prima di passare la mano - di riformulare la domanda di fondo connessa alla struttura del serial. Annegando la questione in un lago notturno prelevato da So cosa hai fatto (1997), sulla nenia cantilenante che cita l'HAL 9000 di 2001  

Oggi però non si conosce nulla a priori. Non si segue per forza uno schema. Il problema non è più sopravvivere dentro un horror-thriller, le accortezze da seguire e i passi falsi da evitare - tant’è vero che si può restare soli e isolati e sfangarla comunque, in abbondanza di suspense fuorvianti e falsi finali. Nemmeno è più una questione di aggiornamento ai tempi, metabolizzato l’upgrade filmico e tecnologico di Scream 4 – da cui si pesca l’overdose di virale, social, sex-taping e texting compulsivo, e di cui basterebbe il prologo a scatole cinesi per scoraggiare qualsiasi ulteriore «metacazzata post-moderna». La questione è un’altra. Seguendo il modo in cui Bates Motel e Hannibal cannibalizzano i classici, American Horror Story e The Walking Dead parcellizzano un gothic rimodernato fondendo Walpole e George A. Romero, è possibile (man)tenere in vita in Tv uno slasher dilazionato, un massacro a scaglioni, diffuso senza disperdere zannate di violenza furibonda e tensione ansiogena insostenibile, vale a dire i pilastri portanti di un genere di fiammate paurose a rapida estinzione e narrazione a combustione rapidissima, restando partecipi dell’affezione ai personaggi e ambigui complici del desiderio scopico e scopofilo di guardarli morire?

Ogni episodio di Scream tenta di offrire una risposta e superarsi nel (ri)percorrere questo brivido, sparigliando carte e certezze su whodunit e whydunit nel procedere orizzontale. La maschera di un Ghostface ancora informe ha qualcosa di rozzo e meno rifinito, di un terrore più sinistramente primitivo e infantile dell’originale – prendendo anche da Leatherface, se necessario, per una delle esecuzioni più splatter.
Funzionale al recupero di una dimensione di rimossi e orrori familiari piccolo-borghesi, di una faida da neighbourhood con echi ancestrali – e krugeriani - tra le mostruosità del normale e la cacciata dei melanconici diversi prelevata dal primo Craven. E che attraversa sotterraneamente, under the stairs, tutta l’evoluzione narrativa, con un ritorno alle origini che diventa omaggio involontario e sa di perfetta chiusura del cerchio per l’uscita di scena del regista di Cleveland.  

Senza mai trascurare il goliardico e divertito romance adolescenziale declinato a più coppie, che spicca nei volti nuovi del teen-trash Usa  - l’impacciato geek John Karna e la bitchy blonde Carlson Young, entrambi prelevati da Io vengo ogni giorno -, azzeccando tutto il campionario di facce per l’ambientazione high-school. Scelte di casting che Craven ponderava con cura, e che avrà certamente avallato anche stavolta. Lui che più di tutti sapeva come i personaggi, prima di finire orrendamente ammazzati davanti ai nostri occhi, debbono almeno essersi amati e fatti amare, fosse soltanto per una notte o il tempo di una puntata.   

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