Forse non è un caso che
l’incipit di Heart of the Sea – Le
origini di Moby Dick di Ron Howard riprenda quello di Big Fish (2003) di Tim Burton, pescandolo dall’ansa di un fiume e trasferendolo
in una vasca d’acqua marina. Un altro
Splash. A una diversa latitudine di
cinema. Stessa immersione subacquea nel fondale del racconto in voice over. Stessa sfilata della bestia che
attraversa il campo, luccicando nei raggi di luce tagliente in superficie, spazzando
banchi di pesci, sbattendo la coda poderosa con pigra e magniloquente indolenza.
Spettri di creature incatturabili protette dall’alone della leggenda o da un velo
di verità inaccessibili. Non è un caso che l’immagine ritorni in un film imperniato
– come già Big Fish – sull’arte, i
rischi e gli ostacoli del raccontare. Sulla ricerca del vero taciuto e dei segreti
recessi dietro l’affastellarsi confuso dello storytelling. Tra l’avventura di un mozzo e l’epica di Omero, l’ancoraggio
al sicuro (?) porto del reale e l’arrischio periglioso nella parabola ammonitrice.
Il viaggio è ai confini dell’abisso segnico di mappe cifrate e rotte naufragate,
su cui si affacciano l’ignoto e l’inconoscibile, la linea d’ombra e di confine
dove “finisce la conoscenza e inizia la speculazione” filosofica.
Nell’universo
di Heart of the Sea c’è chi nasce comandante
per lignaggio e sangue (John Pollard) e chi
- pur nato per essere capitano - deve sudarsi i gradi nella tempesta
(Owen Chase). Proprio come chi da sempre abita “dentro” la storia – Thomas Dickelson, il testimone diretto che giovanissimo
si vede marchiare il racconto nel sangue e nella carne – e chi quella storia è
nato per raccontarla trasfigurandola nel mito (Herman Melville). Ma prima la
deve ca(r)pire, conquistare, addirittura pagare con il vil denaro. Al prezzo di assorbire
il coraggio di “andare dove non si vuole andare”.
Perché Heart of the Sea è tanto una storia di balenieri quanto un’epopea
di narratori. Seguendo la rotta della baleniera Essex e tracciando parallelamente il percorso
fondativo della grande letteratura americana, indicando influenze reciproche, parentele
e derivazioni. Da Hawthorne, passando per Melville – e giù fino a Conrad, la
meta del periplo è diretta al cuore di tenebra umano, con il biancore rilucente
d’alabastro della balena ad andarci di mezzo per meglio riflettere il contrasto.
Solo i personaggi di Howard –
uomini del primo Ottocento, non timorosi ma timorati, lupi di mare per orgoglio
o tradizione, padri di famiglia legati all’onore e alla terra, votati all’affermazione
dell’identità attraverso l’impresa eroica – possono pensare a un moloch
castigatore per punire l’umana cupidigia, l’empia e tracotante volontà di
superare i limiti imposti all’uomo.
La verità è che in Heart of the Sea l’immane balena non è
più l’allegoria urlata a gran voce, l’indignata bestemmia di mole e proporzioni
bibliche scagliata contro la crudele indifferenza divina nel Moby Dick (1956) di John Huston, e
parimenti abbattutasi illesa su critici ignavi o imbarazzati che all’epoca girarono
la testa dall’altra parte, lasciandola spiaggiare nel vuoto d’interpretazione come
un leviatano spolpato di senso, incontrando l’insoddisfazione del regista
(“Volevo fosse chiaro che Moby Dick rappresenta l’impostura assoluta di Dio, la
sua crudeltà, la sua inumanità. Il film è una bestemmia, e mi stupisce che
nessuno protesti”, la dichiarazione spesso riportata).
Per Ron Howard sono proprio gli
uomini della storia – e quelli che la raccontano -, i marinai spauriti e i capitani
coraggiosi della Essex, a (s)cacciare il capodoglio sguazzante a tutto schermo
nelle plongèe in campo lungo come uno
scomodo elefante nella stanza da evitare, facendo finta di non vederlo, passandoci
letteralmente sopra senza vederlo – spesso un miraggio sfumato o un’ambigua allucinazione
di Chase -, fino a (rin)negarlo, e cancellarne in toto l’esistenza – come fanno i capi armatori della spedizione.
Perché la balena è qui prima “presentimento ammonitore”, poi sintomo tangibile
e fatale della tenebra di bestialità che l’uomo ha dentro sé ma non vuole
affrontare – “l’andare dove non si vuole andare” di Melville, ancora -, la
paura ancestrale che ritorna, il trauma primigenio, tutto americano, del
sopravvivere a scapito del sacrificio dei simili, il peccato originale contro
se stessi che non va fatto riaffiorare alle rive della coscienza intima e
civile (Dickerson è restio a condividere e tramandare la storia a Melville). Quell’antropofagismo
che porta all’inumanità spolpata d’anima. E Dio non c’entra, non più una
possibilità né una scusa (nessun vicario imbarcato nella storia, nessuna eco
del sermone biblico di padre Mapple in Moby
Dick, figura centrale del film di Huston nella posa incombente e trasognata
di Orson Welles).
Solo Owen Chase osa un salto
nel buio, fissando l’occhio liquido della balena, tendendo e sostenendo lo
sguardo, risparmiandola dal suo arpione - risparmiato a sua volta - forse perché proprio in quell’occhio
scorge se stesso, il male nascosto dell’uomo, la spinta all’autodistruzione
(e forse c’è ancora Big Fish, la sua
sfida a osservare la propria morte nel vuoto di vetro nell’occhio della
strega). Scegliendo, chissà, non lo sapremo, se assolverlo - il male -, ammendarlo, o accoglierlo e
farsene una ragione.
Per il resto, l’ orrore resta acquattato,
non-visto, nel non-visibile: le immagini non mostrano, fra ellissi e fuori
campo. Represso e chiuso a chiave, non-detto, nell’indicibile: la mesta vergogna
della confessione di Dickerson, che scava nella corazza dei ricordi,
scoperchiandola a fatica come unghie spellate che grattano una superficie di legno
intagliato.
È in questo doppio percorso
sovrapposto, composto di fili narrativi tessuti in focalizzazioni multiple,
parole e racconti, che risiede il nodo, se non politico, certamente anti-epico del
film di Ron Howard.
Il cinema, altrove promotore di
immaginario indissolubile, qui rinuncia al mito e alle mitologie, alla
metafisica di simboli e allegorie che sarà il grande romanzo di Moby Dick, alle figure traslate e ai misteri
della provvidenza, affidando il compito ai maestri della letteratura (Hawthorne
e Melville) come agli umili narratori (è Dickerson-Giona a penetrare nel ventre
della balena).
Ancorandosi piuttosto all’evidenza del vissuto, al pulsare
sanguigno dei corpi e dei gesti alla deriva, alla cancrena livida e alla
salsedine amara della natura umana presa nella spasmodica avventura del reale,
nella lotta per la sopravvivenza e la conservazione dell’umano dentro un
abbruttimento sconosciuto. Scoperto fuori dal disagio della civiltà, nella
nausea della marea, nel deserto inaridito delle onde che culla una calma
piatta, un oceano di segnali e presagi irrisolti – anche dopo l’approdo a terra
-, al posto di una burrascosa tempesta perfetta che inghiotta tutti in un diluvio
di catarsi.
Lasciando trasparire, sotto la tregua dei salvati, un tragico
doppiofondo rivelatore, un’anima nera dei sommersi che non è il limpido Cuore
dell’Oceano annegato nelle profondità del Titanic, tempestato dell’afflato del sentimento
d’amore immortale, ma il cuore malato e tormentato di un Poe che si dibatte inquieto,
gettando un’ombra nefasta sul progresso e l’avvento del capitalismo. Il
richiestissimo olio di balena che ingrossa i commerci di Nantucket lascerà
spazio – ci avvisa Dickerson – a un liquido ben più prezioso e remunerativo,
appena scoperto. Nero, nerissimo come un cuore di tenebra. E come sennò.
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