giovedì 25 febbraio 2016

Cuore di tenebra, coda di balena: Heart of the Sea - Le origini di Moby Dick






















Forse non è un caso che l’incipit di Heart of the Sea – Le origini di Moby Dick di Ron Howard riprenda quello di Big Fish (2003) di Tim Burton, pescandolo dall’ansa di un fiume e trasferendolo in una vasca d’acqua marina. Un altro Splash. A una  diversa latitudine di cinema. Stessa immersione subacquea nel fondale del racconto in voice over. Stessa sfilata della bestia che attraversa il campo, luccicando nei raggi di luce tagliente in superficie, spazzando banchi di pesci, sbattendo la coda poderosa con pigra e magniloquente indolenza. 

Spettri di creature incatturabili protette dall’alone della leggenda o da un velo di verità inaccessibili. Non è un caso che l’immagine ritorni in un film imperniato – come già Big Fish – sull’arte, i rischi e gli ostacoli del raccontare. Sulla ricerca del vero taciuto e dei segreti recessi dietro l’affastellarsi confuso dello storytelling. Tra l’avventura di un mozzo e l’epica di Omero, l’ancoraggio al sicuro (?) porto del reale e l’arrischio periglioso nella parabola ammonitrice. Il viaggio è ai confini dell’abisso segnico di mappe cifrate e rotte naufragate, su cui si affacciano l’ignoto e l’inconoscibile, la linea d’ombra e di confine dove “finisce la conoscenza e inizia la speculazione” filosofica. 

Nell’universo di Heart of the Sea c’è chi nasce comandante per lignaggio e sangue (John Pollard) e chi  - pur nato per essere capitano - deve sudarsi i gradi nella tempesta (Owen Chase). Proprio come chi da sempre abita “dentro” la storia –  Thomas Dickelson, il testimone diretto che giovanissimo si vede marchiare il racconto nel sangue e nella carne – e chi quella storia è nato per raccontarla trasfigurandola nel mito (Herman Melville). Ma prima la deve ca(r)pire, conquistare, addirittura pagare con il vil denaro. Al prezzo di assorbire il coraggio di “andare dove non si vuole andare”.

Perché Heart of the Sea è tanto una storia di balenieri quanto un’epopea di narratori. Seguendo la rotta della baleniera Essex e tracciando parallelamente il percorso fondativo della grande letteratura americana, indicando influenze reciproche, parentele e derivazioni. Da Hawthorne, passando per Melville – e giù fino a Conrad, la meta del periplo è diretta al cuore di tenebra umano, con il biancore rilucente d’alabastro della balena ad andarci di mezzo per meglio riflettere il contrasto.  Solo i personaggi di Howard – uomini del primo Ottocento, non timorosi ma timorati, lupi di mare per orgoglio o tradizione, padri di famiglia legati all’onore e alla terra, votati all’affermazione dell’identità attraverso l’impresa eroica – possono pensare a un moloch castigatore per punire l’umana cupidigia, l’empia e tracotante volontà di superare i limiti imposti all’uomo.


La verità è che in Heart of the Sea l’immane balena non è più l’allegoria urlata a gran voce, l’indignata bestemmia di mole e proporzioni bibliche scagliata contro la crudele indifferenza divina nel Moby Dick (1956) di John Huston, e parimenti abbattutasi illesa su critici ignavi o imbarazzati che all’epoca girarono la testa dall’altra parte, lasciandola spiaggiare nel vuoto d’interpretazione come un leviatano spolpato di senso, incontrando l’insoddisfazione del regista (“Volevo fosse chiaro che Moby Dick rappresenta l’impostura assoluta di Dio, la sua crudeltà, la sua inumanità. Il film è una bestemmia, e mi stupisce che nessuno protesti”, la dichiarazione spesso riportata).  


Per Ron Howard sono proprio gli uomini della storia – e quelli che la raccontano -, i marinai spauriti e i capitani coraggiosi della Essex, a (s)cacciare il capodoglio sguazzante a tutto schermo nelle plongèe in campo lungo come uno scomodo elefante nella stanza da evitare, facendo finta di non vederlo, passandoci letteralmente sopra senza vederlo – spesso un miraggio sfumato o un’ambigua allucinazione di Chase -, fino a (rin)negarlo, e cancellarne in toto l’esistenza – come fanno i capi armatori della spedizione. 



Perché la balena è qui prima “presentimento ammonitore”, poi sintomo tangibile e fatale della tenebra di bestialità che l’uomo ha dentro sé ma non vuole affrontare – “l’andare dove non si vuole andare” di Melville, ancora -, la paura ancestrale che ritorna, il trauma primigenio, tutto americano, del sopravvivere a scapito del sacrificio dei simili, il peccato originale contro se stessi che non va fatto riaffiorare alle rive della coscienza intima e civile (Dickerson è restio a condividere e tramandare la storia a Melville). Quell’antropofagismo che porta all’inumanità spolpata d’anima. E Dio non c’entra, non più una possibilità né una scusa (nessun vicario imbarcato nella storia, nessuna eco del sermone biblico di padre Mapple in Moby Dick, figura centrale del film di Huston nella posa incombente e trasognata di Orson Welles).  

Solo Owen Chase osa un salto nel buio, fissando l’occhio liquido della balena, tendendo e sostenendo lo sguardo, risparmiandola dal suo arpione - risparmiato a sua volta -  forse perché proprio in quell’occhio scorge se stesso, il male nascosto dell’uomo, la spinta all’autodistruzione (e forse c’è ancora Big Fish, la sua sfida a osservare la propria morte nel vuoto di vetro nell’occhio della strega). Scegliendo, chissà, non lo sapremo, se assolverlo  - il male -, ammendarlo, o accoglierlo e farsene una ragione.

Per il resto, l’ orrore resta acquattato, non-visto, nel non-visibile: le immagini non mostrano, fra ellissi e fuori campo. Represso e chiuso a chiave, non-detto, nell’indicibile: la mesta vergogna della confessione di Dickerson, che scava nella corazza dei ricordi, scoperchiandola a fatica come unghie spellate che grattano una superficie di legno intagliato.
È in questo doppio percorso sovrapposto, composto di fili narrativi tessuti in focalizzazioni multiple, parole e racconti, che risiede il nodo, se non politico, certamente anti-epico del film di Ron Howard.


Il cinema, altrove promotore di immaginario indissolubile, qui rinuncia al mito e alle mitologie, alla metafisica di simboli e allegorie che sarà il grande romanzo di Moby Dick, alle figure traslate e ai misteri della provvidenza, affidando il compito ai maestri della letteratura (Hawthorne e Melville) come agli umili narratori (è Dickerson-Giona a penetrare nel ventre della balena).

Ancorandosi piuttosto all’evidenza del vissuto, al pulsare sanguigno dei corpi e dei gesti alla deriva, alla cancrena livida e alla salsedine amara della natura umana presa nella spasmodica avventura del reale, nella lotta per la sopravvivenza e la conservazione dell’umano dentro un abbruttimento sconosciuto. Scoperto fuori dal disagio della civiltà, nella nausea della marea, nel deserto inaridito delle onde che culla una calma piatta, un oceano di segnali e presagi irrisolti – anche dopo l’approdo a terra -, al posto di una burrascosa tempesta perfetta che inghiotta tutti in un diluvio di catarsi. 

Lasciando trasparire, sotto la tregua dei salvati, un tragico doppiofondo rivelatore, un’anima nera dei sommersi che non è il limpido Cuore dell’Oceano annegato nelle profondità del Titanic, tempestato dell’afflato del sentimento d’amore immortale, ma il cuore malato e tormentato di un Poe che si dibatte inquieto, gettando un’ombra nefasta sul progresso e l’avvento del capitalismo. Il richiestissimo olio di balena che ingrossa i commerci di Nantucket lascerà spazio – ci avvisa Dickerson – a un liquido ben più prezioso e remunerativo, appena scoperto. Nero, nerissimo come un cuore di tenebra. E come sennò.     

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