martedì 30 gennaio 2018

(IL CINEMA, IL) CORPO E (L')ANIMA


È nel perimetro di una ricerca silenziosa ma spasmodica, di prossimità affettiva e calore umano, nell’impalpabile tentativo di annullare le distanze tra i singoli, nello sforzo di impressionare la superficie esposta alla pallida luce del sole - la pelle bianca e lattiginosa che abitiamo - con oscuri recessi e desideri inespressi che il film di Ildikó Enyedi intercetta il ruolo combinato del cinema, del corpo e dell’anima nel sofferto processo di formazione di una coppia. Sullo sfondo di un pesantissimo grigiore esistenziale e lavorativo, squarciato solo dal sangue che gronda dalla mattanza della carne animale (e non solo) e da confuse e maldestre esuberanze sessuali.

Lo spazio filmico ricalca il profondo disagio sociale e psicologico dei due protagonisti autoriferiti, Endre e Mária, tracciando una prossemica delle interazioni dalle proporzioni sfasate, con il raggio della distanza comunicativa non corrispondente a quella reale. Seduti a un caffè, li troviamo piazzati ciascuno al margine dell’inquadratura, separati da un tavolino che sembra estendersi per una lunghezza interminabile, assolutamente ingiustificata, tale per cui i due non “combaciano”, irraggiungibili uno per l’altra, lontanissimi. Divisi da un solco invisibile, ma presente, che li isola anche quando si trovano a stretto contatto. Un’altra inquadratura dall’alto della stanza li affianca al momento di addormentarsi, ma le diverse scale di campo, idealmente splittato in due - Endre è sdraiato molto più in basso, su un materasso accostato al letto – li pongono ancora su piani diversi, non sovrapponibili.



Il quadro d’insieme fatica a saldare le posizioni, i due vi si trovano dentro come pedine strozzate (Mária gioca con saliere e omini Playmobil in qualità di surrogati emotivi), impossibile fare una mossa verso l’altro. Naturale che la dimensione deputata all’incontro divenga quella onirica, in solitaria ma su un terreno comune. Il sogno di un bosco da fiaba ricoperto di neve dove i due cervi si studiano lanciandosi minuscoli segnali muti, scoprendosi reciprocamente osservati si cercano e si inseguono con timida prudenza, ma in più, a differenza dei loro attanti umani, osano annusarsi, respirarsi addosso, appoggiarsi teneramente uno all’altro.

Ma al sogno, e alle sue facili interpretazioni, l’opera di Enyedi rinuncia presto, non risolvendosi puramente nella salvifica fuga puerile dai traumi vissuti. Il sogno è, anzi, tutto al servizio della realtà, il vero campo di forze dove lo scoglio relazionale va superato. Dettando all’agire diurno quella simbologia del comportamento animale riverberata in gesti e conversazioni legate alla sfera del cibo, alla sua selezione e raccolta (la mensa come luogo-crocevia che passa tutti in rassegna con il carrello laterale da dietro il vetro opaco del buffet). Vero fil rouge che punteggia la narrazione, media i primi approcci (le disquisizioni su zuppa, carni e verdure), predispone al contatto (la mano di Mária sprofondata nel purè bollente), fino all’auspicata (ri)unione realizzata proprio intorno alla condivisione della tavola domestica: i pomodori tagliati per Endre, gesto di segno inverso alla natura del sottobosco animale, dove è la Femmina, non più inerte e spaurita, a provvedere al cibo del Maschio ferito, a cui le provviste, lo abbiamo visto in precedenza, cadono a terra sfuggendo di mano.


È l’evoluzione di Mária la chiave di volta del racconto. La sua educazione graduale al (con)tatto, a toccare e a lasciarsi toccare, in prove successive (lisciare il pelo di un animale, sfregarsi sull’erba, bagnarsi nella pioggia) di cui l’automutilazione - pratica che la rende speculare ad Endre, la cui castrazione simbolica risultante dalla rinuncia volontaria alle donne è traslata nel rigido braccio paralizzato - incarna la svolta decisiva. Non è autodistruzione, decapitazione, arti mozzati, la macellazione asettica e indifferente che vediamo nel luogo di lavoro, ma rinascita, l’anima affievolita a rischio evaporazione che ritrova un peso nella materia pulsante della carne (la m.d.p scende verticalmente lungo il corpo nudo di Maria fino ai piedi inzuppati nel sangue, come prima scorreva dall’alto in basso sulla carcassa sgocciolante di un manzo appeso). La vitale consapevolezza del proprio corpo incisa nell’evidenza del dolore. 

Anche se in sottofondo scorre una canzone di Laura Marling, He wrote, vengono in mente le parole dell’incipit di Hurt di Johnny Cash, che tradotte fanno pressappoco così: “Oggi mi sono fatto del male, per vedere se ero ancora in grado di sentire. Mi sono concentrato sul dolore, la sola cosa reale”. Per il corpo e per l’anima.

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