Nella geografia desertificata della sci-fi più recente, è sempre questione di
confini, sbarramenti, posizioni e divisioni spaziali. Dove vengono ammassati i reietti. Dove
prospera la classe dominante dei padroni. Se Upside Down di Juan Diego Solanas ed Elysium di Neill Blomkamp rintracciano
il discorso metaforico e politico sull’asse verticale (classi abbienti nel
“mondo di sopra” e nelle colonie sovra-mondo, indigenti schiacciati in basso su
un pianeta in decomposizione), Snowpiercer di
Bong Joon-ho lo intercetta e lo fa correre sui binari dell’asse orizzontale. La risalita
ai vertici del potere attraverso i
vagoni di una locomotiva lanciata all’infinito attorno alla Terra congelata.
“Sacra” e “immortale” arca di salvezza in moto perpetuo, perché fermarsi vuol
dire morire, come in uno Speed(wagon)
post-apocalittico.
Il treno: dai Lumière, icona primigenia
dell’immagine in movimento, luogo fondante e istitutivo del cinema stesso.
Qui fatto deragliare, dirottato in direzione opposta: in testa-coda verso il
sovvertimento dell’istituzione (del cinema action tradizionale). Rivolta e rivoluzione
proletaria che acquistano segno e senso diversi man mano che ci si avvicina al
cuore del Sistema/macchina. Grazie a precisi rimandi ad altre opere di
fantascienza e a un utilizzo del substrato attoriale di alcuni
interpreti-chiave.
La presenza di John Hurt a incarnare l’indecifrabile Gilliam (Brazil e fantasmi orwelliani
già incubati nel nome) richiama l’ambiguità indecidibile e la doppiezza del
potere (oscillando tra l’oppresso Winston di 1984 e il dittatore di V per
Vendetta). Ed Harris è il “misericordioso” deus ex machina che spiega all’(anti)eroe approdato al punto
terminale come tutto sia in fondo costruito per lui a sua insaputa. Rievocando
la similitudine con il demiurgo Christof di The Truman Show, che svelava l’inganno alla sua creatura, provando a ricollocarla al suo posto proprio quando giungeva, come Curtis, alla fine
del percorso, al punto di non-ritorno. In più, il confronto Curtis-Wilford riflette
suggestivamente quello criptico e per nulla risolutivo fra Neo e
l’architetto-programma in Matrix
Reloaded (anche la guida coreana che apre ogni porta del treno pare modellata sulla
figura del fabbricante di chiavi dei Wachowski). L’eletto (Curtis) incontra il
padrone/creatore della Macchina scoprendo di esserne un’appendice, prototipo
ribellistico con molti predecessori alle spalle. Ultima delle anomalie non solo
previste, ma addirittura pilotate dal Sistema (i
pizzini rossi con messaggi libertari inviati da un Oracolo sconosciuto) per
mantenere l’equilibrio generale (il controllo della popolazione e la gestione
delle risorse). In un ecosistema rigidamente chiuso come un acquario.
Quanto allora la rivoluzione dal
basso è forza trasformativa ed eversiva? E quanto è invece elemento indotto dal Sistema e dai suoi sorveglianti, che imbracciano falci e martello per soffocare la sommossa proletaria (qualche combattimento ultra-fisico alla Oldboy
di Chan-wook Park)? Bong mischia le carte
instillando un senso di raggelante ambiguità. Anche i tradizionali simboli del bene smarriscono l’innocenza (il Curtis barbuto e ombroso di Chris Evans, lontano dal volto pulito del Captain
America pilastro del popolo inerme). Le radici del male affondano indistintamente nel cannibalismo umano e sociale.
Pre-finale superbo e
pessimista, con Curtis e Nam Minsu seduti a confronto davanti alle porte (chiuse)
del potere. Anticlimax in stasi contemplativa e disillusa, quasi di ispirazione
carpenteriana. Con la razza umana che deraglia verso l'estinzione a velocità folle, resta il tempo di un
fiammifero per accendersi l’ultima sigaretta rimasta.
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