domenica 2 marzo 2014

Sistema binario: Snowpiercer




Nella geografia desertificata della sci-fi più recente, è sempre questione di confini, sbarramenti, posizioni e divisioni spaziali. Dove vengono ammassati i reietti. Dove prospera la classe dominante dei padroni. Se Upside Down di Juan Diego Solanas ed Elysium di Neill Blomkamp rintracciano il discorso metaforico e politico sull’asse verticale (classi abbienti nel “mondo di sopra” e nelle colonie sovra-mondo, indigenti schiacciati in basso su un pianeta in decomposizione), Snowpiercer di Bong Joon-ho lo intercetta e lo fa correre sui binari dell’asse orizzontale. La risalita ai vertici del potere attraverso i vagoni di una locomotiva lanciata all’infinito attorno alla Terra congelata. “Sacra” e “immortale” arca di salvezza in moto perpetuo, perché fermarsi vuol dire morire, come in uno Speed(wagon) post-apocalittico.
Il treno: dai Lumière, icona primigenia dell’immagine in movimento, luogo fondante e istitutivo del cinema stesso. Qui fatto deragliare, dirottato in direzione opposta: in testa-coda verso il sovvertimento dell’istituzione (del cinema action tradizionale). Rivolta e rivoluzione proletaria che acquistano segno e senso diversi man mano che ci si avvicina al cuore del Sistema/macchina. Grazie a precisi rimandi ad altre opere di fantascienza e a un utilizzo del substrato attoriale di alcuni interpreti-chiave.

La presenza di John Hurt a incarnare l’indecifrabile Gilliam (Brazil e fantasmi orwelliani già incubati nel nome) richiama l’ambiguità indecidibile e la doppiezza del potere (oscillando tra l’oppresso Winston di 1984 e il dittatore di V per Vendetta). Ed Harris è il “misericordioso” deus ex machina che spiega all’(anti)eroe approdato al punto terminale come tutto sia in fondo costruito per lui a sua insaputa. Rievocando la similitudine con il demiurgo Christof di The Truman Show, che svelava l’inganno alla sua creatura, provando a ricollocarla al suo posto proprio quando giungeva, come Curtis, alla fine del percorso, al punto di non-ritorno. In più, il confronto Curtis-Wilford riflette suggestivamente quello criptico e per nulla risolutivo fra Neo e l’architetto-programma in Matrix Reloaded (anche la guida coreana che apre ogni porta del treno pare modellata sulla figura del fabbricante di chiavi dei Wachowski). L’eletto (Curtis) incontra il padrone/creatore della Macchina scoprendo di esserne un’appendice, prototipo ribellistico con molti predecessori alle spalle. Ultima delle anomalie non solo previste, ma addirittura pilotate dal Sistema (i pizzini rossi con messaggi libertari inviati da un Oracolo sconosciuto) per mantenere l’equilibrio generale (il controllo della popolazione e la gestione delle risorse). In un ecosistema rigidamente chiuso come un acquario.

Quanto allora la rivoluzione dal basso è forza trasformativa ed eversiva? E quanto è invece elemento indotto dal Sistema e dai suoi sorveglianti, che imbracciano falci e martello  per soffocare la sommossa proletaria (qualche combattimento ultra-fisico alla Oldboy di Chan-wook Park)? Bong mischia le carte instillando un senso di raggelante ambiguità. Anche i tradizionali simboli del bene smarriscono l’innocenza (il Curtis barbuto e ombroso di Chris Evans, lontano dal volto pulito del Captain America pilastro del popolo inerme). Le radici del male affondano indistintamente nel cannibalismo umano e sociale. 
Pre-finale superbo e pessimista, con Curtis e Nam Minsu seduti a confronto davanti alle porte (chiuse) del potere. Anticlimax in stasi contemplativa e disillusa, quasi di ispirazione carpenteriana. Con la razza umana che deraglia verso l'estinzione a velocità folle, resta il tempo di un fiammifero per accendersi l’ultima sigaretta rimasta.  

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