Scrittura e dialoghi. La traduzione e
il tradimento. Sono pratiche preposte al trattamento di qualunque testo
trasportato da un linguaggio all’altro, rimediato su un supporto diverso da
quello d’origine, col rischio congenito di modificarne forme e significati. La
vicenda di Saving Mr. Banks mostra come
le stesse dinamiche caratterizzino il vissuto umano, nella rielaborazione del
ricordo e nell’adattamento di affanni e sentimenti. Quando ci si prende troppa
libertà con il materiale di partenza o, al contrario, si pecca di eccessiva
riduzione dell'immaginario.
Con qualche forzatura strappalacrime e stilizzazioni vintage da parco a tema disneyano, il film di John Lee Hancock apre una cornice fiabesca muovendosi su un doppio livello: il lavoro agli Studios per la trasposizione dell’opera su schermo e la coscienza turbinosa della scrittrice esternata attraverso il cinema, un flashback alla volta (non tutti necessari). Perché se la storia di P.L. Travers è quella del suo essere inflessibilmente restia allo sconvolgimento del romanzo di Mary Poppins (posizione di resistenza legittima per qualsiasi artista), la posta in gioco è più alta. E aldilà dei testi, concerne piuttosto quanto si rischi di tradire i propri affetti tentando di “tradurli” al di fuori di sé, per condividerli con gli altri, il pubblico. Specialmente con gli spettatori di una sala. Perché la signora Travers sembra nutrire una fobia proprio per il cinema. O meglio, per il rituale pubblico messo in atto dal cinema (la vediamo spaesata e tremante sul red carpet della première, prima che giunga Topolino in soccorso). Forse impaurita dal suo potere di far riemergere i fantasmi dell’inconscio, molto più che nelle pagine di un libro. Le viene naturale esorcizzare un’infanzia sofferta con il filtro dell’invenzione romanzesca e l’iperbole immaginifica della parola scritta, tra le pieghe di una personale Neverland in cui a nessuno è permesso entrare. Ma quando si tratta del trasporto (emotivo) della sua creatura sul mezzo-cinema, sembra andare in crisi. Anche la più minuscola variazione, come i sottili baffi disneyani affibbiati a Mr. Banks o i pinguini animati, diventa scompenso insopportabile, banalità irrispettosa, insulto all’onore e alla memoria di quei personaggi che, lo dice lei stessa, sono la sua famiglia. È il prezzo di ogni traduzione/tradimento: qualcosa si perde per forza. Ma qualcosa di nuovo si scopre su se stessi e si lascia in dono alle generazioni. Come fa un classico del cinema.
Con qualche forzatura strappalacrime e stilizzazioni vintage da parco a tema disneyano, il film di John Lee Hancock apre una cornice fiabesca muovendosi su un doppio livello: il lavoro agli Studios per la trasposizione dell’opera su schermo e la coscienza turbinosa della scrittrice esternata attraverso il cinema, un flashback alla volta (non tutti necessari). Perché se la storia di P.L. Travers è quella del suo essere inflessibilmente restia allo sconvolgimento del romanzo di Mary Poppins (posizione di resistenza legittima per qualsiasi artista), la posta in gioco è più alta. E aldilà dei testi, concerne piuttosto quanto si rischi di tradire i propri affetti tentando di “tradurli” al di fuori di sé, per condividerli con gli altri, il pubblico. Specialmente con gli spettatori di una sala. Perché la signora Travers sembra nutrire una fobia proprio per il cinema. O meglio, per il rituale pubblico messo in atto dal cinema (la vediamo spaesata e tremante sul red carpet della première, prima che giunga Topolino in soccorso). Forse impaurita dal suo potere di far riemergere i fantasmi dell’inconscio, molto più che nelle pagine di un libro. Le viene naturale esorcizzare un’infanzia sofferta con il filtro dell’invenzione romanzesca e l’iperbole immaginifica della parola scritta, tra le pieghe di una personale Neverland in cui a nessuno è permesso entrare. Ma quando si tratta del trasporto (emotivo) della sua creatura sul mezzo-cinema, sembra andare in crisi. Anche la più minuscola variazione, come i sottili baffi disneyani affibbiati a Mr. Banks o i pinguini animati, diventa scompenso insopportabile, banalità irrispettosa, insulto all’onore e alla memoria di quei personaggi che, lo dice lei stessa, sono la sua famiglia. È il prezzo di ogni traduzione/tradimento: qualcosa si perde per forza. Ma qualcosa di nuovo si scopre su se stessi e si lascia in dono alle generazioni. Come fa un classico del cinema.
È qui che entra in gioco l’entusiasta e malinconico
Walt Disney di Tom Hanks. La sua lotta per acquisire i diritti del film diventa allora la rieducazione di Pam Travers alla bontà delicata, alla verità magicamente catartica
del (suo) cinema. Verità ma non veridicità, perché i traumi non si cancellano.
Ma proprio per questo il lavoro dei narratori è ancor più importante.
“Ristabilire l’ordine con l’immaginazione”, spiega Walt. Chiudere una
storia, lasciarla andare e scorrere sullo schermo, insieme alle lacrime e alle
nuvole del cielo dal quale discenderà Mary Poppins. Ottimi
comprimari e una sublime colonna sonora di Thomas Newman.
Nessun commento:
Posta un commento