C’era una volta… in un regno
lontano… un re e una regina… in un grande castello. Qui invece c’è una svolta. Due
terre attigue, sovrani vanagloriosi alla conquista di un bosco fatato, giovani
in cerca di fortune e custodi alate, l'amore disperso fra inganno e vendetta.
“Ascoltate questa storia, forse non è come l’avete conosciuta” avvisa
un’imprecisata voice over. Maleficent attesta fin da titolo e incipit
il cambio di prospettiva nel rivisitare la fiaba della Bella Addormentata. E lo
fa partendo da esplicite marche extratestuali, con il consueto castello-logo
disneyano trasformato in dissolvenza incrociata nel castello di ambientazione
della storia. Modulazione di un’icona tipica della factory, il castello reale (quello di Biancaneve e i sette nani, 1937, La
Bella e la Bestia, 1991, e ovviamente della Bella Addormentata), che simboleggia
e prelude all’aggiornamento del classico di casa Disney (La bella addormentata nel bosco, Clyde Geronimi, 1959).
Il castello di Maleficent è punto di partenza, non più rifugio e approdo finale di
eroi ed eroine. Spazio dal quale allontanarsi e non istituzione a cui far
ritorno, travisando la morfologia fiabesca di Propp. Caricato di piena valenza
significante, diventa il luogo-fortezza in cui si barrica la tradizione
disneyana (Re Stefano saldamente ancorato a fianco del plastico in miniatura
del castello) sul punto di essere scardinata da contraddizioni e figure del
cinema contemporaneo (Malefica). Il vettore di svalutazione di vecchi topoi deposti: il bacio risolutivo del
principe (similmente a quanto avveniva in Biancaneve
e il cacciatore, 2012), le nozze e il ballo di corte, sostituiti da
sequenze di lotta in cappa e spada con riformulazione dell’identità (il recupero
delle ali), dove anche il drago cambia pelle e sponda. Perfino l’immancabile
incoronazione finale in presenza dei sudditi avviene fuori dalle mura, nello
spazio aperto alla contaminazione (anche cinematografica) della Brughiera, con il favore delle sue bislacche creature. I personaggi provano allora a muoversi
in territori fiabeschi affini (Stefano armato di coltello alle spalle
dell’ignara Malefica sembra quasi il cacciatore di Biancaneve, con il “falso
segno” delle ali strappate al posto del cuore di cinghiale), per poi dover
ammettere di aver dimenticato le disposizioni narrative classiche, come accade
alle tre imbranatissime fate che riportano Aurora al castello con un giorno d’anticipo.
Funziona bene solo chi, come Fosco, abbraccia una natura instabile e
metamorfica.
La perizia scenografica dell’esordiente
Robert Stromberg (affermato production
designer) non si risolve nel semplice piacere della confezione, ennesima
tassonomia fantasy tra Avatar, l’Alice di Burton e Il Signore degli Anelli. Ma diventa impalcatura
visuale attraverso la quale dichiarare la fedeltà di fondo ai modelli d’origine
(la fiaba di Perrault e il classico del ’59) nel momento stesso in cui se ne
prospettano dei rovesciamenti. A tal proposito, ricordiamo che in origine il termine “addormentato” si riferiva al bosco, e non alla fanciulla. Da
leggersi dunque nell’accezione di “La bella nel bosco addormentato” (La
belle au bois dormant).
Stromberg interpreta la suggestione nell’immagine della foresta ridotta a brulla sterpaglia di tenebre, dove tutto
giace morto, addormentato appunto, sepolto sotto la coltre di rabbia di
Malefica. Nelle varianti fiabesche e nel classico disneyano, era invece la
popolazione del regno a cadere in un sonno profondo per mano delle fate.
Allo stesso modo, la fitta muraglia di rovi giganti, solitamente eretta intorno
al castello, è qui dislocata ai confini del bosco. Cerniera dell’ignoto, dell’estraneo trasformato in culla materna. È quello di Malefica il vero spazio simbolico da penetrare e riscattare (mentre il turning point è da sempre l’ingresso del principe azzurro al castello), esplorandone la natura ambivalente che riflette l’essenza scissa del
personaggio.
Maleficent,
grazie alla fascinazione magnetica e spigolosa della Jolie, ne offre
un’interpretazione originale e sfaccettata, lontana dalle caratterizzazioni precedenti,
in cui era presentata come niente più che un'arpia offesa per il mancato
invito al ricevimento. Prototipo moderno che evade le dicotomie (bene-male),
confonde i ruoli (madre, matrigna, amante tradita, orfana) e scompagina le funzioni
proppiane (eroe, tutore, antagonista, impossibile collocare Malefica),
accantona la concezione di un male austero, metafisico e stregonesco, per farsi incarnazione ordinariamente umana delle difficoltà di relazioni del contemporaneo (la veglia quotidiana su Aurora è un'altra innovazione rispetto al canone). “Il male è di questo
mondo”, spiega Malefica ad Aurora. Nessuno può evadere da quest’incantesimo. Infine ci si ricorda di essere in un prodotto Disney, la famiglia si ricostituisce nel
segno del “vero amore” e si può vivere felici e contenti. Ma stavolta, ben
lontani dal castello.
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