lunedì 2 giugno 2014

Lontano dal castello



C’era una volta… in un regno lontano… un re e una regina… in un grande castello. Qui invece c’è una svolta. Due terre attigue, sovrani vanagloriosi alla conquista di un bosco fatato, giovani in cerca di fortune e custodi alate, l'amore disperso fra inganno e vendetta. “Ascoltate questa storia, forse non è come l’avete conosciuta” avvisa un’imprecisata voice over. Maleficent attesta fin da titolo e incipit il cambio di prospettiva nel rivisitare la fiaba della Bella Addormentata. E lo fa partendo da esplicite marche extratestuali, con il consueto castello-logo disneyano trasformato in dissolvenza incrociata nel castello di ambientazione della storia. Modulazione di un’icona tipica della factory, il castello reale (quello di Biancaneve e i sette nani, 1937, La Bella e la Bestia, 1991, e ovviamente della Bella Addormentata), che simboleggia e prelude all’aggiornamento del classico di casa Disney (La bella addormentata nel bosco, Clyde Geronimi, 1959).


Il castello di Maleficent è punto di partenza, non più rifugio e approdo finale di eroi ed eroine. Spazio dal quale allontanarsi e non istituzione a cui far ritorno, travisando la morfologia fiabesca di Propp. Caricato di piena valenza significante, diventa il luogo-fortezza in cui si barrica la tradizione disneyana (Re Stefano saldamente ancorato a fianco del plastico in miniatura del castello) sul punto di essere scardinata da contraddizioni e figure del cinema contemporaneo (Malefica). Il vettore di svalutazione di vecchi topoi deposti: il bacio risolutivo del principe (similmente a quanto avveniva in Biancaneve e il cacciatore, 2012), le nozze e il ballo di corte, sostituiti da sequenze di lotta in cappa e spada con riformulazione dell’identità (il recupero delle ali), dove anche il drago cambia pelle e sponda. Perfino l’immancabile incoronazione finale in presenza dei sudditi avviene fuori dalle mura, nello spazio aperto alla contaminazione (anche cinematografica) della Brughiera, con il favore delle sue bislacche creature. I personaggi provano allora a muoversi in territori fiabeschi affini (Stefano armato di coltello alle spalle dell’ignara Malefica sembra quasi il cacciatore di Biancaneve, con il “falso segno” delle ali strappate al posto del cuore di cinghiale), per poi dover ammettere di aver dimenticato le disposizioni narrative classiche, come accade alle tre imbranatissime fate che riportano Aurora al castello con un giorno d’anticipo. Funziona bene solo chi, come Fosco, abbraccia una natura instabile e metamorfica.


La perizia scenografica dell’esordiente Robert Stromberg (affermato production designer) non si risolve nel semplice piacere della confezione, ennesima tassonomia fantasy tra Avatar, l’Alice di Burton e Il Signore degli Anelli. Ma diventa impalcatura visuale attraverso la quale dichiarare la fedeltà di fondo ai modelli d’origine (la fiaba di Perrault e il classico del ’59) nel momento stesso in cui se ne prospettano dei rovesciamenti. A tal proposito, ricordiamo che in origine il termine “addormentato” si riferiva al bosco, e non alla fanciulla. Da leggersi dunque nell’accezione di “La bella nel bosco addormentato” (La belle au bois dormant). Stromberg interpreta la suggestione nell’immagine della foresta ridotta a  brulla sterpaglia di tenebre, dove tutto giace morto, addormentato appunto, sepolto sotto la coltre di rabbia di Malefica. Nelle varianti fiabesche e nel classico disneyano, era invece la popolazione del regno a cadere in un sonno profondo per mano delle fate. Allo stesso modo, la fitta muraglia di rovi giganti, solitamente eretta intorno al castello, è qui dislocata ai confini del bosco. Cerniera dell’ignoto, dell’estraneo trasformato in culla materna. È quello di Malefica il vero spazio simbolico da penetrare e riscattare (mentre il turning point è da sempre l’ingresso del principe azzurro al castello), esplorandone la natura ambivalente che riflette l’essenza scissa del personaggio.


Maleficent, grazie alla fascinazione magnetica e spigolosa della Jolie, ne offre un’interpretazione originale e sfaccettata, lontana dalle caratterizzazioni precedenti, in cui era presentata come niente più che un'arpia offesa per il mancato invito al ricevimento. Prototipo moderno che evade le dicotomie (bene-male), confonde i ruoli (madre, matrigna, amante tradita, orfana) e scompagina le funzioni proppiane (eroe, tutore, antagonista, impossibile collocare Malefica), accantona la concezione di un male austero, metafisico e stregonesco, per farsi incarnazione ordinariamente umana delle difficoltà di relazioni del contemporaneo (la veglia quotidiana su Aurora è un'altra innovazione rispetto al canone). “Il male è di questo mondo”, spiega Malefica ad Aurora. Nessuno può evadere da quest’incantesimo. Infine ci si ricorda di essere in un prodotto Disney, la famiglia si ricostituisce nel segno del “vero amore” e si può vivere felici e contenti. Ma stavolta, ben lontani dal castello.

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