giovedì 12 giugno 2014

Un caso ancora aperto



L’agente speciale Costner attraversa stradine e mercati di Parigi in sella a una bicicletta da donna. Eppure, due tirapiedi lo sbeffeggiano chiedendogli se sia smontato da cavallo, dove abbia lasciato gli stivali, irridendone la virilità (“Questo viene da Brokeback Mountain”). Il ragazzo di sua figlia si imbarazza al cospetto di colui che considera un vero cowboy, accennando un’improbabile parlata rude. Tutti lo vedono come archetipo vetusto e anacronistico di un tempo andato. Dandogli il benvenuto nel nuovo millennio con una suoneria cool. O facendolo sentire fuori posto anche in un diverbio sulla barba di un prigioniero. “Questi sono baffi”, si difende il Costner ancorato ai folti mustacchi ottocenteschi di Balla coi lupi, Open Range e Hatfield & McCoys. “Si, forse nel tuo secolo”, lo schernisce la partner Amber Heard, killer fumettistica dell’era digitale che pare uscita da Sin City.


McG alterna screzi e situazioni da comedy con ritmi action meglio di quanto non facesse in Una spia non basta. Ma 3 Days To Kill, più che uno spy movie senile e atipico alla Red, si configura innanzitutto come film-spia dello status divistico di Kevin Costner negli anni Duemila. Uccidere per non morire sul grande schermo. Lo scorrere dei giorni contati di Ethan Renner, affetto da tumore incurabile, coincide con il lasso di tempo filmico a disposizione dell’attore per tastare la propria resistenza cinematografica e dimostrare di essere un caso ancora aperto, riconquistando spettatori prima di moglie e figlia della storia. Primo artefice dei suoi successi (Balla coi lupi) come dei suoi clamorosi tonfi (Waterworld, Mr. Brooks), l’eroe tenace, malinconico e vulnerabile dell’avventura in solitaria qui approfitta dello script di Luc Besson per varcare, dopo le praterie indiane, le terre di confine, le strade violente dell’America di Eastwood (Un mondo perfetto) e le verità impenetrabili di quella di Oliver Stone (JFK), l’ennesima frontiera della sua filmografia: quella dell’action movie duro e puro venato di un iper-cinetismo da fumetto (la scena dell’inseguimento parte proprio sotto gli occhi di un bambino che legge comics di agenti segreti). 


Non abbastanza eccessivo, spaccone e mercenario per l’arruolamento negli Expendables di Stallone, Costner attraversa il genere a modo suo, come ha fatto con il western. Ricercando una dimensione di riconciliazione intima (la relazione padre-figlia prevale sulle atmosfere thrilling). Uno spazio e un sogno di libertà (ricordiamo Field of Dreams dell'89) che forse non appartengono (più) al suo Paese. Non a caso è costretto a sconfinare a Parigi, meditando in riva alla Senna pur conservando l’orgoglioso animo sportivo di Tin Cup e Gioco d’amore nel difendere lo sport americano dalle contaminazioni europee. Anche se le certezze non dimorano da nessuna parte (i coinquilini senzatetto di Ethan). L’eroe e il divo non sono più recintabili in un ruolo preciso. “Tu sei un buono?” chiede un bambino al protagonista. Costner non risponde e ci chiude la porta in faccia.

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