lunedì 21 gennaio 2013

Django Unchained (2012)



Un dato significativo, innanzitutto. Django Unchained è il primo film di Tarantino dentro il quale il cinema, come mezzo tecnologico, non esiste. Non c’è e non dovrebbe esserci. Perché ancora non è stato inventato (siamo nel 1858, alla vigilia della Guerra Civile americana). Eppure, in qualche modo, il cinema è lì ma non si vede, come la D di Django: c’è ma resta muta, silenziosa (e Franco Nero ben se lo ricorda).

Non è difficile immaginare lo scoppiettante duo Django- Dr. King Schultz trapiantato ai giorni nostri: starebbero lì, seduti alla tavola calda, a sproloquiare su Like A Virgin di Madonna come le iene di Reservoir Dogs. O a discutere di massaggi ai piedi e hamburger di McDonalds alla stregua dei killer di Pulp Fiction. A elucubrare su Clark Kent e Superman assieme a Bill Gunn. O ancora a scambiare opinioni su Pabst, Fassbinder e l’espressionismo tedesco come i militari cinefili di Bastardi senza Gloria.


Quando però si tratta di cinema, del cinema, Tarantino non ammette gli anacronismi che riserva alla Storia (centrali in Inglourious Basterds). Nel West di Django Unchained non c’è ancora spazio per i cortocircuiti indotti dalle potenzialità del cinematografo. Non è ancora tempo per la mercificazione culturale di massa. 
E allora, l’immaginario, si fa con quel che c’è. Antiche leggende teutoniche, impavidi eroi presi a prestito dalla mitologia (Sigfrido, Brunilde  e il drago): è questa la cultura-pop a disposizione, a cui Django si appassiona. Guardare, per credere, come si inginocchia in silenzio davanti al fuoco per seguire il racconto di Schultz. Quasi un bambino rapito all’ascolto della favola. Sempre curioso di sapere cosa succede dopo (E poi…e poi?). Perché quella storia, di schiavitù, amore, liberazione e vendetta, è la sua storia, il dramma di un intero popolo sottomesso. 


Divisione fra razze ma anche scontro di culture, in Django Unchained. L’edificante epica di matrice germanica e la ricercatezza europea (il parlare forbito di King Schultz) da una parte. L’exploitation sanguinosa e gratuita delle rozze americanate di serie B dall’altra. 
E qui Tarantino quasi fa autocritica, con la sequenza dello schiavo sbranato vivo dai cani di Calvin Candie. King Schultz è turbato dalla scena, vorrebbe salvare il malcapitato. Mentre Django resta dolorosamente a contemplare, impassibile. “Io sono più abituato agli americani”, spiega riflettendo la piena coscienza da parte di Tarantino del turpe passato di violenza degli USA, a dispetto di ogni accusa mossagli contro.

Tarantino muove verso nuove influenze e nuove radici. Letterarie, ad esempio, citando Alexandre Dumas (1802-1870) e I tre moschettieri. Modesto scrittore di romanzi per il pubblico di massa, Dumas. Autore pop, attento a  mode e gusti del suo tempo, certo non poteva sfuggire al regista. E allora, l’unione fa la forza. Tutti per uno, uno per tutti.  Django il moschettiere si unisce alle forze del re-King Schultz per sfidare il perfido Candie-Richelieu e ricongiungersi all’amata. Il riferimento a Dumas svela inoltre la barbara inciviltà e l’ignoranza del dispotismo “bianco”: il giocondo Monsieur Candie (così vuol essere chiamato, ma non sa parlare francese) si pavoneggia raffinato intellettuale e chiama il suo schiavo D’Artagnan, non sapendo che il romanzo a cui appartiene il personaggio fu scritto proprio da uno di quei neri che disprezza.

Il razzismo, per Tarantino, non può che essere, prima di tutto, diffusa incultura: dei testi, delle storie, della finzione e dell’immaginario. Ma anche dello scientismo illuminato, con le teorie di Newton e Galileo distorte in pregiudizio razziale: la superiorità biologica, cerebrale (si veda la scena del teschio), del wasp americano sul nigger votato al servilismo. 
Intolleranza visibile anche nella patetica sensibilità artistica di Candie (la scultura raffigurante i lottatori del Mandingo) e nella sua radicale mancanza di senso storico. Emblematico il kitsch da basso impero decadente che adorna il locale Cleopatra Club, con la sala “Giulio Cesare” e la testa della regina d’Egitto esposta su un mobile. D’altronde, è lo stesso Candie, scoperto l’inganno ai suoi danni, a rivelare di aver "covato una serpe” in seno.

 

Personaggio inafferrabile, Django. Ambiguo, difficile da identificare (“Chi è quel negro?” si chiedono i prigionieri vedendolo fuggire nella clip che segue i titoli di coda). Spesso ritratto fuori fuoco, in perenne transito (l’insistenza sulle inquadrature di spostamenti e viaggi a cavallo). Impreciso nella caratterizzazione, volutamente appena abbozzato (“Posso scegliermi il costume da solo?” si domanda).

Si muove come un agile pistolero di Sergio Leone tra zommate improvvise, tempi dilatati e atmosfere sospese (magistrale la strategia della tensione crescente durante la cena a casa Candie, che rievoca quella della taverna francese di Bastardi senza gloria). Tra spari al rallentatore e fiotti di sangue che affrescano le pareti. Prima dell’inevitabile, catartica, esplosione finale.

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