Un dato significativo, innanzitutto.
Django Unchained è il primo film di Tarantino dentro il quale il cinema, come mezzo tecnologico, non esiste. Non c’è e non dovrebbe esserci. Perché ancora
non è stato inventato (siamo nel 1858, alla vigilia della Guerra Civile
americana). Eppure, in qualche modo, il cinema è lì ma non si vede, come la D di
Django: c’è ma resta muta, silenziosa
(e Franco Nero ben se lo ricorda).
Non è difficile immaginare lo scoppiettante duo Django- Dr. King Schultz trapiantato ai giorni nostri: starebbero lì, seduti alla tavola calda, a sproloquiare su Like A Virgin di Madonna come le iene di Reservoir Dogs. O a discutere di massaggi ai piedi e hamburger di McDonalds alla stregua dei killer di Pulp Fiction. A elucubrare su Clark Kent e Superman assieme a Bill Gunn. O ancora a scambiare opinioni su Pabst, Fassbinder e l’espressionismo tedesco come i militari cinefili di Bastardi senza Gloria.
Non è difficile immaginare lo scoppiettante duo Django- Dr. King Schultz trapiantato ai giorni nostri: starebbero lì, seduti alla tavola calda, a sproloquiare su Like A Virgin di Madonna come le iene di Reservoir Dogs. O a discutere di massaggi ai piedi e hamburger di McDonalds alla stregua dei killer di Pulp Fiction. A elucubrare su Clark Kent e Superman assieme a Bill Gunn. O ancora a scambiare opinioni su Pabst, Fassbinder e l’espressionismo tedesco come i militari cinefili di Bastardi senza Gloria.
Quando però si tratta di cinema,
del cinema, Tarantino non ammette gli anacronismi che riserva alla Storia (centrali
in Inglourious Basterds). Nel West di
Django Unchained non c’è ancora
spazio per i cortocircuiti indotti dalle potenzialità del cinematografo. Non è
ancora tempo per la mercificazione culturale di massa.
E allora, l’immaginario,
si fa con quel che c’è. Antiche leggende teutoniche, impavidi eroi
presi a prestito dalla mitologia (Sigfrido, Brunilde e il drago): è questa la cultura-pop a
disposizione, a cui Django si appassiona. Guardare, per credere, come si
inginocchia in silenzio davanti al fuoco per seguire il racconto di Schultz. Quasi
un bambino rapito all’ascolto della favola. Sempre curioso di sapere cosa
succede dopo (E poi…e poi?). Perché quella storia, di schiavitù, amore,
liberazione
e vendetta,
è la sua storia, il dramma di un intero popolo sottomesso.
Divisione fra razze ma anche scontro di culture, in Django Unchained. L’edificante epica di matrice germanica e la ricercatezza europea (il parlare forbito di King Schultz) da una parte. L’exploitation sanguinosa e gratuita delle rozze americanate di serie B dall’altra.
E qui Tarantino quasi fa
autocritica, con la sequenza dello schiavo sbranato vivo dai cani di Calvin
Candie. King Schultz è turbato dalla scena, vorrebbe salvare il malcapitato. Mentre
Django resta dolorosamente a contemplare, impassibile. “Io sono più abituato
agli americani”, spiega riflettendo la piena coscienza da parte di Tarantino
del turpe passato di violenza degli USA, a dispetto di ogni accusa mossagli contro.
Tarantino muove
verso nuove influenze e nuove radici. Letterarie, ad esempio, citando Alexandre
Dumas (1802-1870) e I tre moschettieri. Modesto scrittore di romanzi per il pubblico di
massa, Dumas. Autore pop, attento a mode e
gusti del suo tempo, certo non poteva sfuggire al regista. E allora, l’unione
fa la forza. Tutti per uno, uno per tutti.
Django il moschettiere si unisce alle forze del re-King Schultz per
sfidare il perfido Candie-Richelieu e ricongiungersi all’amata. Il riferimento
a Dumas svela inoltre la barbara inciviltà e l’ignoranza del dispotismo
“bianco”: il giocondo Monsieur Candie (così vuol essere chiamato, ma non sa parlare francese) si pavoneggia raffinato intellettuale e chiama il suo
schiavo D’Artagnan, non
sapendo che il romanzo a cui appartiene il personaggio fu scritto proprio da uno di quei neri che disprezza.
Il razzismo,
per Tarantino, non può che essere, prima di tutto, diffusa incultura: dei testi,
delle storie, della finzione e dell’immaginario. Ma anche dello scientismo
illuminato, con le teorie di Newton e Galileo distorte in pregiudizio
razziale: la superiorità biologica, cerebrale (si veda la scena del teschio), del
wasp
americano sul nigger votato al
servilismo.
Intolleranza visibile anche nella patetica sensibilità artistica di
Candie (la scultura raffigurante i lottatori del Mandingo) e nella sua radicale
mancanza di senso storico. Emblematico il kitsch da basso impero decadente che
adorna il locale Cleopatra Club, con la sala “Giulio Cesare” e la testa della regina d’Egitto esposta su un mobile. D’altronde, è lo stesso Candie,
scoperto l’inganno ai suoi danni, a rivelare di aver "covato una serpe” in
seno.
Personaggio inafferrabile,
Django. Ambiguo, difficile da identificare (“Chi è quel negro?” si
chiedono i prigionieri vedendolo fuggire nella clip che segue i titoli di
coda). Spesso ritratto fuori fuoco, in perenne transito
(l’insistenza sulle inquadrature di spostamenti e viaggi a cavallo). Impreciso nella caratterizzazione, volutamente appena abbozzato (“Posso scegliermi il costume da solo?” si
domanda).
Si muove come
un agile pistolero di Sergio Leone tra zommate improvvise, tempi dilatati e
atmosfere sospese (magistrale la strategia della tensione crescente durante la
cena a casa Candie, che rievoca quella della taverna francese di Bastardi senza gloria). Tra spari
al rallentatore e fiotti di sangue che affrescano le pareti. Prima
dell’inevitabile, catartica, esplosione finale.
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