giovedì 17 gennaio 2013

Ho perso le parole...



The Words
di Brian Klugman e Lee Sternthal

Data di uscita italiana: 21 settembre 2012

Parole per raccontare, per condividere una storia. Storie vere o inventate. Parole che sgorgano spontanee dal dolore, una marea inarrestabile che inonda la pagina. Parole rubate o ritrovate. Frasi di una storia sconosciuta, ricopiate per il piacere sublime di sentire parole scorrere attraverso le dita. Toccare le parole. Parole che “rovinano tutto”, che guastano vite, persone, amori. La seduzione folle della scrittura. Perché delle parole ci si può innamorare a tal punto da farci dimenticare chi ce le ha ispirate, lasciando solo rimorsi e un manoscritto ingiallito al posto del fuoco di una passione ardente, perduta per sempre.

Sono tutte queste le words che segnano l’esordio cinematografico di Brian Klugman e Lee Sternthal. Al centro c’è il processo della scrittura, il potere di raccontare storie, il ruolo dello storytelling. In un intreccio di narratori e narratari, autori e lettori, creatori (falsi) e personaggi (veri). C’è chi scrive per vocazione. Chi  per mestiere, come Rory Jansen, che tira a campare con gli assegni paterni in attesa di scrivere il libro della vita. C’è invece che scrive per cancellare il dolore, riversando i traumi sulla pagina (il personaggio di Jeremy Irons da giovane). 

Le parole erompono da dentro, si fissano da sole sulla pagina, senza sforzo, senza quasi accorgersene, velocissime. In un flusso torrenziale diretto, sincero, vero, profondo, e per questo unico. Per quale motivo e per chi scrive invece Clay Hammond? Per il successo, per il piacere del racconto, di giocare con la finzione? Ha solamente inventato la storia di un plagio, di un furto, o si tratta del racconto della sua vita? Al pubblico del reading sta forse nascondendo la verità nel momento stesso in cui rivela esplicitamente la sua menzogna? 


La forza e l’ambiguità della parola. Confini incerti poichè, come dice Clay, “realtà e finzione sono vicine, ma non si toccano mai”. Piuttosto si sovrappongono, nell’intreccio di piani narrativi, voci e flashback che caratterizzano il plot. Un groviglio intrigante in cui però si finisce presto per annoiarsi. Dopo le buone premesse della prima parte, il film si arena in una sorta di “blocco dello scrittore” creativo dei due registi-sceneggiatori, che non sanno più dove andare a parare. Il colpo di scena rivelatorio a cui si prepara lo spettatore va a vuoto. 

Più di tutto viene compromessa una riflessione sull’arte del narrare, di trasfigurare le mancanze della vita in racconto, che poteva risultare originale, ma che viene invece dispersa in una sequela confusa di dialoghi, confessioni, confronti tra i personaggi, logorante come la lettura del classico libro-mattone.

Interessante solo in parte, un film che sarà presto dimenticato sullo scaffale come un vecchio libro polveroso.   

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