The Words
di Brian Klugman e Lee Sternthal
Data di uscita italiana: 21 settembre 2012
Parole per raccontare, per
condividere una storia. Storie vere o inventate. Parole che sgorgano spontanee
dal dolore, una marea inarrestabile che inonda la pagina. Parole rubate o
ritrovate. Frasi di una storia sconosciuta, ricopiate per il piacere sublime di
sentire parole scorrere attraverso le dita. Toccare le parole. Parole che
“rovinano tutto”, che guastano vite, persone, amori. La seduzione folle della
scrittura. Perché delle parole ci si può innamorare a tal punto da farci
dimenticare chi ce le ha ispirate, lasciando solo rimorsi e un manoscritto
ingiallito al posto del fuoco di una passione ardente, perduta per sempre.
Sono tutte queste le words che segnano l’esordio
cinematografico di Brian Klugman e Lee Sternthal. Al centro c’è il processo
della scrittura, il potere di raccontare storie, il ruolo dello storytelling. In un intreccio di
narratori e narratari, autori e lettori, creatori (falsi) e personaggi (veri). C’è
chi scrive per vocazione. Chi per
mestiere, come Rory Jansen, che tira a campare con gli assegni paterni in
attesa di scrivere il libro della vita. C’è invece che scrive per cancellare il
dolore, riversando i traumi sulla pagina (il personaggio di Jeremy Irons da
giovane).
Le parole erompono da dentro, si fissano da sole sulla pagina, senza
sforzo, senza quasi accorgersene, velocissime. In un flusso torrenziale
diretto, sincero, vero, profondo, e per questo unico. Per quale motivo e per
chi scrive invece Clay Hammond? Per il successo, per il piacere del racconto,
di giocare con la finzione? Ha solamente inventato la storia di un plagio, di
un furto, o si tratta del racconto della sua vita? Al pubblico del reading sta
forse nascondendo la verità nel momento stesso in cui rivela esplicitamente la
sua menzogna?
La forza e l’ambiguità della parola. Confini incerti poichè, come
dice Clay, “realtà e finzione sono vicine, ma non si toccano mai”. Piuttosto si
sovrappongono, nell’intreccio di piani narrativi, voci e flashback che
caratterizzano il plot. Un groviglio
intrigante in cui però si finisce presto per annoiarsi. Dopo le buone premesse
della prima parte, il film si arena in una sorta di “blocco dello scrittore”
creativo dei due registi-sceneggiatori, che non sanno più dove andare a parare.
Il colpo di scena rivelatorio a cui si prepara lo spettatore va a vuoto.
Più di
tutto viene compromessa una riflessione sull’arte del narrare, di trasfigurare
le mancanze della vita in racconto, che poteva risultare originale, ma che
viene invece dispersa in una sequela confusa di dialoghi, confessioni,
confronti tra i personaggi, logorante come la lettura del classico libro-mattone.
Interessante solo in parte, un
film che sarà presto dimenticato sullo scaffale come un vecchio libro
polveroso.
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