di
William Friedkin
Data di uscita italiana: 11 ottobre 2012
Un paesino
della provincia texana. Lo sbandato Chris è un giovane spacciatore assediato
dai debiti. D’accordo col padre e la matrigna, decide di assassinare la madre
per intascare una grossa somma dall’assicurazione. Assolda così il poliziotto Joe Cooper,
nel tempo libero infallibile killer. La presenza dell’imprevedibile sorella di
Chris, Dottie, e il sorgere di alcuni imprevisti, complicheranno la situazione.
Incipit. Schermo nero. Lo scatto
ripetuto di un accendino. Uno sparo secco rompe il silenzio. L’eco si confonde
nel fragore di un tuono. Rumori che, dietro una calma apparente, ovattata,
nascondono scintille pericolose. Fiammate maligne pronte a divampare
all’improvviso. Colpi, scatti e lampi di violenza sul punto di esplodere da un
momento all’altro.
Sono questi i movimenti che attraversano tutto il film. Il
regista catapulta lo spettatore al centro di miserie umane ed efferatezze
brutali senza preavviso, spiazzandolo di colpo, all’interno di un vortice impazzito.
Friedkin gioca a fare il piromane
in un film radicalmente incendiario. Facendo a pezzi tutto e
tutti, senza risparmiare nessuno. L’attimo prima c’è una famiglia e il suo
strano ospite, seduti per la cena. L’attimo dopo la cucina diventa un ribollire
di sangue, urla, pistole, coltelli. Scene da rivoltare lo stomaco si
direbbe, visto che siamo a tavola. Viene fatta a fette la società americana. Si
scardinano i valori buonisti, l’ipocrisia che cela un feroce cannibalismo, per
cui ci si sbrana l’un l’altro anche, anzi soprattutto, tra consanguinei.
Friedkin infonde alle immagini un’inquietudine
morbosa, nauseante. Innesca un perverso meccanismo di attrazione/repulsione,
in scene che in mano ad altri registi sarebbero risultate goffe (il coito orale
mimato con la coscia di pollo, Killer Joe che si struscia sulla ragazzina).
Le sequenze cominciano con le buone
maniere. Si procede con lentezza, ritmo
sospeso, atmosfere distese e rilassate, a lume di candela. Poi, di colpo,
partono le schegge. Si ribalta volgarmente il “galateo” culinario e civile (Joe
rovescia la tavola, fracassa il televisore), cinematografico (si passa dal
piano sequenza al sezionamento frenetico). Un incedere di attese spasmodiche e di
tensione paranoica. Elementi tipici di Friedkin fin da L’esorcista (1973), e visti all’opera anche nel claustrofobico Bug (2006).
Vengono portate alle estreme
conseguenze le nefandezze della crisi economica. In fondo si parla
di una famiglia alle prese con un debito enorme che scopre di non poter saldare.
Se non al prezzo salatissimo della propria distruzione ad opera di Joe, che per
i suoi servigi esige un pagamento in natura, una caparra umana (la giovane Dottie).
Altrimenti si riprenderà tutto con gli interessi, con una carneficina,
chiedendo un tributo di sangue.
Soldi sporchi e corpi lividi,
dilaniati, carbonizzati. Joe è paradossalmente l’unico personaggio che più
volte fa richiami all’ordine, all’equilibrio, all’educazione e al rispetto dei
patti, in un tessuto sociale sfibrato e irrimediabilmente fuori controllo. Sembra
il solo a conoscere le leggi della vita, del mercato. Cita il motto latino Caveat
Emptor: attenzione agli acquisti incauti, accertatevi sempre di cosa state
comprando. Con questo personaggio, un po’ cowboy senza passato e un po’ Stuntman
Mike (Grindhouse di Tarantino, 2007),
Friedkin giunge al culmine dello straniamento che segna l’intero film.
Viene ridicolizzato il rituale della
preghiera a tavola. Joe diventa il sinistro capofamiglia, lo psicotico
padre-padrone il cui unico, folle desiderio, è quello di “mangiare tutti
insieme, come una vera famiglia”. La cena è servita: la famiglia americana in
putrefazione.
Cast di altissimo livello, fra
cui spicca la spigliatissima Juno Temple e un Matthew Mc Conaughey formidabile,
in una prova finalmente convincente dopo troppo commedie all’acqua di rose.
Un capitolo e un modo di fare cinema
assolutamente imperdibili.
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