Re-animation: il Burton ricostruito di Frankenweenie
Victor Frankenstein è un
ombroso ragazzino con un forte interesse per la scienza, che passa le giornate
in solitudine girando film in super8 in compagnia dell’inseparabile cagnolino
Sparky. Quando l’animale muore investito da una macchina, Victor cade nello
sconforto più totale: ha perso l’unico, amatissimo amico. Seguendo un bizzarro
esperimento scolastico, riuscirà però a riportare in vita Sparky,
all’insaputa di tutti. Ora, il cagnolino dovrà restare nascosto…
Il tempo della comparsa del logo
Disney sullo schermo e lo sfondo si fa grigio, cinereo, plumbeo. Il tono allegro
del jingle di apertura sfocia nelle sonorità lugubri della partitura di Danny Elfman.
Ancora una volta, benvenuti a Burtonland.
Il teatro dell’azione sarà New Holland, sonnolenta cittadina
carica di influenze olandesi: i mulini
(figure spesso presenti in Burton, già viste ne Il
mistero di Sleepy Hollow, 1999, e in Alice
in Wonderland, 2010), i fiori rigogliosi e perfettamente curati dei
giardini, le celebrazioni imminenti per il “Dutch day”, la ragazzina
Elsa che porta il cognome del dottor Van Helsing di Dracula.
Il contesto di New Holland è
quello di una bolla spazio-temporale in cui tutto è fermo, come sotto la cupola
di una palla di vetro in miniatura. Proprio come nella cornice favolistica di Edward mani di forbice (1990). Se là
scendevano fiocchi di neve, qui, sul nuovo, tetro universo burtoniano, si
infrangono regolarmente pioggia, vento, tuoni e fulmini.
La veduta panoramica della città,
con il mulino e il cartellone “New Holland” (identico alla monumentale scritta
bianca di “Hollywood”), che dall’alto della collinetta in lontananza sovrastano
lo scenario suburbano di ville e giardinetti, è la perfetta immagine-simbolo di
un paesaggio geografico, sociale e culturale forzatamente fagocitato da logiche
e modelli fittizi, legati a un immaginario buonista e rassicurante
tipico della provincia americana (da sempre nel mirino di Burton).
New Holland va così ad aggiungersi
alla galleria di luoghi burtoniani dove i gretti abitanti vivono in un conformismo
ottuso che spinge verso la mediocrità. Verso la repressione di ogni
sentimento autentico, sensibilità particolare, stimolo creativo. Non appena questi siano percepiti come strani, incongrui, devianti rispetto alla sicurezza
e alla banalità della norma.
La curiosità, la vivacità
intellettuale, la sete di conoscenza del provetto scienziato Victor sono mal
tollerate dagli ingessati benpensanti di New Holland, che si rifugiano in una
piatta monotonia e in un oscurantismo consolatorio. “Sapere
troppo non fa bene” ammonisce la flaccida e prepotente maestra di educazione
fisica della scuola di Victor, promossa a insegnare Scienze in tuta da
ginnastica. In un edificio scolastico che ricorda le architetture del razionalismo
fascista (sintomo di tutta la radicale sfiducia che Burton continua a
nutrire verso le istituzioni educative).
Lo stralunato ma sincero Mr.
Rzykruski viene allontanato soltanto perché giudicato troppo eccentrico (non
viene nemmeno chiamato per nome dal sindaco, ma spregiativamente indicato
come “la minaccia”).
Grazie a lui, i bambini cominciano a pensare con la
propria testa, a fare domande astruse, inconsuete, e questo terrorizza i loro scialbi
genitori.
Come spiega rassegnato lo stesso Rzykruski a Victor “la gente vuole
quello che la scienza gli dà, non le domande che la scienza pone”,
testimoniando tutta l’egoista meschinità dei cittadini di New Holland.
Lo stesso padre di Victor, pur comprensivo e premuroso con il figlio, lo istruisce al
compromesso (incoraggiandolo ad uscire dalla soffitta per dedicarsi al
baseball come gli altri ragazzi). A sacrificare se
stesso e le sue doti al giudizio superficiale della massa. Ma in questo modo,
dice Victor, “nessuno è veramente felice”.
Anche i suoi compagni alzano il
velo sull’ipocrisia. Come il grassoccio Bob, quando, leggendo le istruzioni
sulla scatola di alcune scimmiette-giocattolo mutate in mostri, rivela
inconsapevolmente la tragica verità sul mortificante panorama della vita di New
Holland, con i suoi abitanti assimilati a pazzi animaletti urlanti: “Sulla
scatola c’è scritto che vivono felici nel loro regno, sempre con un sorriso. Ma
non è così”.
Victor e Rzykruski sono dunque i
soli a sancire l’importanza della sensibilità individuale.
A incarnare la figura dell’artista-scienziato illuminato, in
lotta contro il bieco scetticismo e la diffidenza arrogante (il maestro bolla
come “stupidi e ignoranti” tutti i genitori presenti all’assemblea scolastica).
Fede nella
ragione (del cervello e del cuore) e nella bontà del progresso (intimo e
umanista più che sociale e tecnologico), contro la spersonalizzante omologazione
generale. Una diversità dello sguardo di cui Burton si fa ancora una volta alfiere
(“Vedere è sapere” certifica Edgar, il goffo e ingobbito compagno di Victor che
ricorda l’Igor di Frankenstein Junior,
1974).
In questo senso, il finale è ottimistico, con il mea culpa dei grandi
(“A volte gli adulti non sanno di cosa parlano” ammette il padre di Victor).
Dunque, si diceva, nessuna spinta
all’inventiva personale, alla trasgressione della norma e al cambiamento. È lo stesso processo sperimentato
in prima persona dal giovane Burton animatore alla Disney, costretto a
smorzare il suo impeto visionario incanalandolo nei rigidi standard imposti
dall’azienda.
Ecco allora che Burton,
attraverso la messa in scena finzionale (ambientazione, personaggi e plot),
opera una riflessione metatestuale sulla natura e sul travagliato
percorso di Frankenweenie inteso
come oggetto filmico, come prodotto audiovisivo.
La vicenda di
Sparky che muore e ritorna in vita, infatti, si presta oggi ad essere letta
come la storia della scomparsa e dell’occultamento
di un testo (il Frankenweenie mediometraggio del 1984) e del suo
recupero, della sua rinnovata visibilità (il
Frankenweenie lungometraggio del 2012). Tutto ciò è
reso possibile da un curioso parallelo, con un meccanismo di identificazione
tra la personalità artistica di Burton e
il personaggio di Sparky.
Il Burton
animatore alla Disney, infatti, può essere visto come una sorta di cane sciolto che
scorrazza liberamente e disordinatamente (come fa Sparky) tra le macabre e
sconfinate lande della sua immaginazione. Con un fortissimo legame
emotivo, puro ed autentico, quasi ingenuo, con le bizzarre creature
che incontra lungo la strada (come fa il fedele Sparky con il padrone Victor e
la barboncina Persefone) e che la sua matita cattura.
Un entusiasmo e una
frenesia a cui è impossibile porre freno, mettere la museruola, legare alla
catena (proprio come Sparky, sempre pronto a spezzare le corde che lo cingono
per correre verso il gioco e la libertà).
Un’esplosione
di vitalità creativa che tuttavia viene annullata, negata, frustrata (Sparky
muore investito da una macchina, Burton si deprime vedendo osteggiato e censurato il suo lavoro su Frankenweenie).
Solo successivamente viene recuperata, ri-animata, resuscitata. Il
Frankenweenie di Burton ritorna così in vita finalmente riassemblato e ricucito
(come gli organi e il pelo di Sparky) nella sua versione più compiuta, nel
pieno della sua essenza. Alla fine del percorso, entrambi si vedono
pubblicamente accettati, il loro merito riconosciuto (il cagnolino dai
cittadini di New Holland, Burton dai produttori-spettatori). Pur restando,
inevitabilmente, dei diversi, degli strani, bizzosi e bizzarri freaks.
In questa
prospettiva, è il cagnolino Sparky, e non il solitario Victor (pur modellato
sulle ossessioni del regista bambino), il vero alter ego di Burton all’interno della narrazione.
Interessantissimo il pre-finale,
con la città che diventa un gigantesco luna-park. Un’impazzita giostra
itinerante (ancora la visione di Burton dei sobborghi americani come
stranianti caricature da parco a tema) in balia di icone cinematografiche
tra le più disparate (al cinema locale si proietta Bambi, c’è un piccolo criceto-mummia,
il mostro-tartaruga
gigante che sembra Godzilla e si chiama Shelley come la Mary del
romanzo Frankenstein, le voraci
scimmiette strepitanti che ricordano i Gremlins,
l’indifeso gatto Baffino che si trasforma in orripilante pipistrello-mannaro).
Spuntano anche riferimenti alla produzione letteraria di Burton, con il
personaggio della stramba e catatonica ragazzina dai grandi occhi che è uguale
alla Staring girl (La bambina che
fissava) presente nella raccolta di poesie Morte malinconica del bambino
Ostrica (The Melancholy Death of
Oyster Boy & Other Stories, 1997).
È il caos prodotto dalla
liberazione dell’immaginazione, dallo sconfinamento della finzione nella
realtà della storia, che arriva a soverchiare una volta per tutte la finta
armonia e la cordialità di facciata della popolazione di New Holland. Con la
materializzazione concreta dei fantasmi in pellicola (il corto “Monsters from
Beyond”) che Victor filma (rigorosamente in stop motion) e nell’incipit
mostra in salotto ai genitori, con Sparky dinosauro preistorico che combatte
uno pterodattilo in giardino, tra bambole e soldatini (l’artigianalità
dell’approccio cinematografico sempre cara a Burton).
La visione domestica sul
vecchio televisore a tubo catodico ha sempre un posto privilegiato, nei ricordi
nostalgici del regista: si scorge Christopher Lee in Dracula il vampiro (1958), in una bellissima sequenza in cui la
magniloquente colonna sonora del film di Terence Fisher che giunge dallo
schermo (i genitori di Victor stanno guardando il film seduti sul divano) fa da
contrappunto ai movimenti del ragazzino, rientrato in casa di soppiatto, intento a
non farsi scoprire con il cadavere di Sparky trafugato al cimitero. In
un’ideale sovrapposizione tra la materia filmica che ha plasmato l’immaginazione
del Burton bambino e la sua ri-attualizzazione nel presente di
Frankenweenie.
Perché è questa l’operazione di Burton (comunque di pregevole fattura): il regista non innova più radicalmente ma ripropone,
rimescola,
riallestisce
in una nuova (?) storia temi, personaggi e atmosfere che sono ormai divenuti un
brand, il suo inconfondibile marchio
di fabbrica.
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