sabato 19 gennaio 2013

Frankenweenie (2012)


Re-animation: il Burton ricostruito di Frankenweenie
 
Victor Frankenstein è un ombroso ragazzino con un forte interesse per la scienza, che passa le giornate in solitudine girando film in super8 in compagnia dell’inseparabile cagnolino Sparky. Quando l’animale muore investito da una macchina, Victor cade nello sconforto più totale: ha perso l’unico, amatissimo amico. Seguendo un bizzarro esperimento scolastico, riuscirà però a riportare in vita Sparky, all’insaputa di tutti. Ora, il cagnolino dovrà restare nascosto…




Il tempo della comparsa del logo Disney sullo schermo e lo sfondo si fa grigio, cinereo, plumbeo. Il tono allegro del jingle di apertura sfocia nelle sonorità lugubri della partitura di Danny Elfman.

Ancora una volta, benvenuti a Burtonland. Il teatro dell’azione sarà New Holland, sonnolenta cittadina carica di influenze olandesi: i mulini (figure spesso presenti in Burton, già viste ne Il mistero di Sleepy Hollow, 1999, e in Alice in Wonderland, 2010), i fiori rigogliosi e perfettamente curati dei giardini, le celebrazioni imminenti per il “Dutch day”, la ragazzina Elsa che porta il cognome del dottor Van Helsing di Dracula.

Il contesto di New Holland è quello di una bolla spazio-temporale in cui tutto è fermo, come sotto la cupola di una palla di vetro in miniatura. Proprio come nella cornice favolistica di Edward mani di forbice (1990). Se là scendevano fiocchi di neve, qui, sul nuovo, tetro universo burtoniano, si infrangono regolarmente pioggia, vento, tuoni e fulmini.

La veduta panoramica della città, con il mulino e il cartellone “New Holland” (identico alla monumentale scritta bianca di “Hollywood”), che dall’alto della collinetta in lontananza sovrastano lo scenario suburbano di ville e giardinetti, è la perfetta immagine-simbolo di un paesaggio geografico, sociale e culturale forzatamente fagocitato da logiche e modelli fittizi, legati a un immaginario buonista e rassicurante tipico della provincia americana (da sempre nel mirino di Burton).



New Holland va così ad aggiungersi alla galleria di luoghi burtoniani dove i gretti abitanti vivono in un conformismo ottuso che spinge verso la mediocrità. Verso la repressione di ogni sentimento autentico, sensibilità particolare, stimolo creativo. Non appena questi siano percepiti come strani, incongrui, devianti rispetto alla sicurezza e alla banalità della norma.

La curiosità, la vivacità intellettuale, la sete di conoscenza del provetto scienziato Victor sono mal tollerate dagli ingessati benpensanti di New Holland, che si rifugiano in una piatta monotonia e in un oscurantismo consolatorio. “Sapere troppo non fa bene” ammonisce la flaccida e prepotente maestra di educazione fisica della scuola di Victor, promossa a insegnare Scienze in tuta da ginnastica. In un edificio scolastico che ricorda le architetture del razionalismo fascista (sintomo di tutta la radicale sfiducia che Burton continua a nutrire verso le istituzioni educative).




Lo stralunato ma sincero Mr. Rzykruski viene allontanato soltanto perché giudicato troppo eccentrico (non viene nemmeno chiamato per nome dal sindaco, ma spregiativamente indicato come “la minaccia”). 
Grazie a lui, i bambini cominciano a pensare con la propria testa, a fare domande astruse, inconsuete, e questo terrorizza i loro scialbi genitori. 
Come spiega rassegnato lo stesso Rzykruski a Victor “la gente vuole quello che la scienza gli dà, non le domande che la scienza pone”, testimoniando tutta l’egoista meschinità dei cittadini di New Holland. 



Lo stesso padre di Victor, pur comprensivo e premuroso con il figlio, lo istruisce al compromesso (incoraggiandolo ad uscire dalla soffitta per dedicarsi al baseball come gli altri ragazzi). A sacrificare se stesso e le sue doti al giudizio superficiale della massa. Ma in questo modo, dice Victor, “nessuno è veramente felice”.

Anche i suoi compagni alzano il velo sull’ipocrisia. Come il grassoccio Bob, quando, leggendo le istruzioni sulla scatola di alcune scimmiette-giocattolo mutate in mostri, rivela inconsapevolmente la tragica verità sul mortificante panorama della vita di New Holland, con i suoi abitanti assimilati a pazzi animaletti urlanti: “Sulla scatola c’è scritto che vivono felici nel loro regno, sempre con un sorriso. Ma non è così”.

Victor e Rzykruski sono dunque i soli a sancire l’importanza della sensibilità individuale. A incarnare la figura dell’artista-scienziato illuminato, in lotta contro il bieco scetticismo e la diffidenza arrogante (il maestro bolla come “stupidi e ignoranti” tutti i genitori presenti all’assemblea scolastica).

Fede nella ragione (del cervello e del cuore) e nella bontà del progresso (intimo e umanista più che sociale e tecnologico), contro la spersonalizzante omologazione generale. Una diversità dello sguardo di cui Burton si fa ancora una volta alfiere (“Vedere è sapere” certifica Edgar, il goffo e ingobbito compagno di Victor che ricorda l’Igor di Frankenstein Junior, 1974). 
In questo senso, il finale è ottimistico, con il mea culpa dei grandi (“A volte gli adulti non sanno di cosa parlano” ammette il padre di Victor).



Dunque, si diceva, nessuna spinta all’inventiva personale, alla trasgressione della norma e al cambiamento. È lo stesso processo sperimentato in prima persona dal giovane Burton animatore alla Disney, costretto a smorzare il suo impeto visionario incanalandolo nei rigidi standard imposti dall’azienda.

Ecco allora che Burton, attraverso la messa in scena finzionale (ambientazione, personaggi e plot), opera una riflessione metatestuale sulla natura e sul travagliato percorso di Frankenweenie inteso come oggetto filmico, come prodotto audiovisivo.

La vicenda di Sparky che muore e ritorna in vita, infatti, si presta oggi ad essere letta come la storia  della scomparsa e dell’occultamento di un testo (il Frankenweenie mediometraggio del 1984) e del suo recupero, della sua rinnovata visibilità (il Frankenweenie lungometraggio del 2012). Tutto ciò è reso possibile da un curioso parallelo, con un meccanismo di identificazione tra la  personalità artistica di Burton e il personaggio di Sparky.

Il Burton animatore alla Disney, infatti, può essere visto come una sorta di cane sciolto che scorrazza liberamente e disordinatamente (come fa Sparky) tra le macabre e sconfinate lande della sua immaginazione. Con un fortissimo legame emotivo, puro ed autentico, quasi ingenuo, con le bizzarre creature che incontra lungo la strada (come fa il fedele Sparky con il padrone Victor e la barboncina Persefone) e che la sua matita cattura. 


Un entusiasmo e una frenesia a cui è impossibile porre freno, mettere la museruola, legare alla catena (proprio come Sparky, sempre pronto a spezzare le corde che lo cingono per correre verso il gioco e la libertà).

Un’esplosione di vitalità creativa che tuttavia viene annullata, negata, frustrata (Sparky muore investito da una macchina, Burton si deprime vedendo osteggiato e  censurato il suo lavoro su Frankenweenie). 
Solo successivamente viene recuperata, ri-animata, resuscitata. Il Frankenweenie di Burton ritorna così in vita finalmente riassemblato e ricucito (come gli organi e il pelo di Sparky) nella sua versione più compiuta, nel pieno della sua essenza. Alla fine del percorso, entrambi si vedono pubblicamente accettati, il loro merito riconosciuto (il cagnolino dai cittadini di New Holland, Burton dai produttori-spettatori). Pur restando, inevitabilmente, dei diversi, degli strani, bizzosi e bizzarri freaks.

In questa prospettiva, è il cagnolino Sparky, e non il solitario Victor (pur modellato sulle ossessioni del regista bambino), il vero alter ego di Burton all’interno della narrazione.

Interessantissimo il pre-finale, con la città che diventa un gigantesco luna-park. Un’impazzita giostra itinerante (ancora la visione di Burton dei sobborghi americani come stranianti caricature da parco a tema) in balia di icone cinematografiche tra le più disparate (al cinema locale si proietta Bambi, c’è un piccolo criceto-mummia, il mostro-tartaruga gigante che sembra Godzilla e si chiama Shelley come la Mary del romanzo Frankenstein, le voraci scimmiette strepitanti che ricordano i Gremlins, l’indifeso gatto Baffino che si trasforma in orripilante pipistrello-mannaro). 
Spuntano anche riferimenti alla produzione letteraria di Burton, con il personaggio della stramba e catatonica ragazzina dai grandi occhi che è uguale alla Staring girl (La bambina che fissava) presente nella raccolta di poesie Morte malinconica del bambino Ostrica (The Melancholy Death of Oyster Boy & Other Stories, 1997).



È il caos prodotto dalla liberazione dell’immaginazione, dallo sconfinamento della finzione nella realtà della storia, che arriva a soverchiare una volta per tutte la finta armonia e la cordialità di facciata della popolazione di New Holland. Con la materializzazione concreta dei fantasmi in pellicola (il corto “Monsters from Beyond”) che Victor filma (rigorosamente in stop motion) e nell’incipit mostra in salotto ai genitori, con Sparky dinosauro preistorico che combatte uno pterodattilo in giardino, tra bambole e soldatini (l’artigianalità dell’approccio cinematografico sempre cara a Burton). 


La visione domestica sul vecchio televisore a tubo catodico ha sempre un posto privilegiato, nei ricordi nostalgici del regista: si scorge Christopher Lee in Dracula il vampiro (1958), in una bellissima sequenza in cui la magniloquente colonna sonora del film di Terence Fisher che giunge dallo schermo (i genitori di Victor stanno guardando il film seduti sul divano) fa da contrappunto ai movimenti del ragazzino, rientrato in casa di soppiatto, intento a non farsi scoprire con il cadavere di Sparky trafugato al cimitero. In un’ideale sovrapposizione tra la materia filmica che ha plasmato l’immaginazione del Burton bambino e la sua ri-attualizzazione nel presente di Frankenweenie.

Perché è questa l’operazione di Burton (comunque di pregevole fattura): il regista non innova più radicalmente ma ripropone, rimescola, riallestisce in una nuova (?) storia temi, personaggi e atmosfere che sono ormai divenuti un brand, il suo inconfondibile marchio di fabbrica.

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