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sabato 1 novembre 2014

Walkman on the moon



«Io sono Groot». Nomen omen. Nella battuta autoreferenziale scandita a ripetizione dalla pianta umanoide si inscrive la natura dell’operazione di James Gunn. Growth + Root. Crescita e radici, capacità di (ri)generazione illimitata. Guardiani della Galassia apre un (v)arco narrativo nella declinazione sci-fi del Cinematic Universe incrociando gli stilemi consolidati del franchise. L’espansione spaziale della galassia Marvel, e di un fandom sempre più allargato e trasversale, passa attraverso l’azzeccato crossover di mood tra la diversità feconda dei perdenti emarginati presa agli X-Men e le caratterizzazioni stridenti, le punzecchiature rimpallate del Team Avengers. 

Scorrendo parallelamente al nastro magnetico vintage un lessico diegetico mutevolmente plurimo, dettato dalla situazione e dai registri cozzanti dei personaggi. In bilico tra il divertissement letterale e il gioco metaforico, l’epico e il buffo, «il grande spettacolo di luci» (parole di Yondu) e il sostrato di un immaginario mixato di generi e nostalgia eighties che scivola piacevolmente addosso allo spettatore. Adescato alle citazioni come a godersi fuor di metafora gli sberleffi insensatamente gratuiti di Rocket e le smargiassate senza filtro di Drax. 

I Guardiani diventano promotori di una divertita odissea nelle meteore raffreddate e decostruite della fantascienza d'antan (Star Wars e Star Trek depurati della filologia rispettosa di Lucas e J.J. Abrams). Rivisitate a tempo di ballate pop-rock, permeabili ad ogni suggestione ironica ed iconica pur riflettendo minacce contemporanee (i kamikaze Kree, gli accordi di pace violati). Tra la mutapelle Saldana e l’incrocio alieno Pratt, Xandar è meta-luogo di mescolanza ibrida come la Terra è il pianeta degli archetipi di finzione, da Bonnie e Clyde e Billy the Kid al goffo anticonformismo ballerino di Footloose (1984). In mezzo sta la dimora del Collezionista, a custodire reperti museali dell’improbabile fauna Marvel del passato (la bonus scene amplia per una volta gli inside jokes pregressi invece di allacciarsi a narrazioni a venire). 

La parola chiave è sospensione. Dell’incredulità, ovviamente. Della suspense e dei climax. La gravità pomposa e tonitruante del cinecomix messa in pausa col rewind affettivo di un Walkman. Il tempo frizionato, campionato con le (sotto)tracce musicali, cuffie isolanti un feeling e capsule condensative di un’epoca. Time in a Bottle, seguendo la  hit che in X-Men - Giorni di un futuro passato modellava il ralenty. A spasso nel tempo negli spazi di una canzone, a conferma di un preciso refrain stilistico. Dentro un vortice di senso stratificato e sensi galvanizzati in perpetua dilatazione. I Guardiani ritorneranno. Il nuovo equipaggio della Marvel Enterprise(s) è appena salpato. 

venerdì 18 luglio 2014

Titani in (rottam)azione



«Dov’è Optimus Prime?» è la domanda che pressa fin dal trailer. E infatti il leader degli Autobot, almeno a partire da Transformers 3, ha sempre qualcuno a braccarlo. Qui accade che a stanarlo arrivi chi non lo ha mai cercato (come Sam Witwicki con Bumblebee nel primo Transformers). Ma è il dove che ci interessa. Una sala cinematografica in disfacimento, proiettori arcaici, poltrone logore e ammuffite, locandine d’annata e cumuli di cianfrusaglie sotto lo schermo. Con buona pace di chi pensa che neanche per sbaglio Michael Bay possa azzardare una riflessione metalinguistica, la carcassa arrugginita di Optimus sta proprio lì, in mezzo ai detriti dell’immaginario. La riparazione del robot diventa parallelamente restyling, implementazione del prodotto-cinema concepito da Bay.

Transformers 4 – L’era dell’estinzione non funge soltanto da mutazione ultima del film d’evasione. Ne è l'incessante rottamazione visiva, il suo continuo ripensamento produttivo e concettuale. Il garage-capannone di Cade Yeager come foltissimo set della creazione cinematografica, dove non mancano gingilli come gli obiettivi Zeiss. L’inventore Cade che smonta e rimonta ferraglie ripristinando Optimus Prime è Michael Bay che riassembla e modifica pezzi del blockbuster americano. Rianimandolo ogni volta con i cavi di una batteria di scontri ed effettistica sempre più sterminata. Un progressivo upgrade dell’entertainment d’azione e del suo immaginario monstre, che trova il suo climax nei dinosauri spielberghiani (inconfondibile l’esoscheletro dello Spinosauro) evoluti in creature metalliche domate dal robot umanizzato (Optimus), non ancora dominabili dall’uomo tecnologizzato (il tycoon Joyce di Stanley Tucci, variante isterico-ironica dell'agente Simmons dei primi tre film).

Come attesta il prologo, nell’era dell’estinzione (di massa) di ogni differenza ontologica realtà/simulacro, il cinema di Michael Bay, roboante ruggito digitale, ritorna al caos ibrido di un titanismo preistorico (dimensione introdotta già nei capitoli precedenti, con il Megatron fossile di ghiaccio del primo Transformers o gli scontri coi primati dell’incipit di La vendetta del caduto). Un Big Bang ipercinetico di superfici pixellate cozzante nelle armature degli Autobot fino alla massima erosione dei sensi dello spettatore. Bay manipola gli elementi come le molecole di transformio tra le mani di Stanley Tucci. Un sostrato metamorfico a base sci-fi che accumula figure e suggestioni da altri generi, dalla combriccola di Autobot in stile western crepuscolare, con l’automa-samurai che recita haiku e combatte in cappa e spada di metallo, fino agli inseguimenti rallystici ai limiti della fisica di Fast and Furious. 

Sullo sfondo, un laicissimo velo opaco sui Creatori misteriosi incubato fin dal secondo pannello della saga («Se Dio ci ha fatti a sua immagine… lui chi l’ha fatto?» diceva di Optimus Prime un soldato), con qualche prestito dal Prometheus di Ridley Scott. La macchina ribelle Optimus, gettando il ponte per un sequel, sembra quasi andare alla ricerca dei Grandi Antichi lovecraftiani nello spazio. Chissà che Michael Bay non decida in futuro di ripescare e rottamare anche quelli.

giovedì 5 giugno 2014

L'arma del giorno dopo



Il domani non muore mai per il soldato Cage, ed è sempre un buon giorno per morire. Maggiore USA degradato a comune disertore, cade in battaglia e rivive in loop la carneficina compiuta da imprevedibili invasori alieni.  
Edge of Tomorrow, o la guerra dei mondi possibili. Doug Liman recupera da The Bourne Identity la brusca rinascita del protagonista incastrato in un contesto ostile, ribaltandone le premesse: se Jason era l'unico a ignorare la sua identità passata contro un sistema che lo braccava, Cage è il solo a conoscere la verità su se stesso e sulle sorti dell'umanità all'insaputa di tutti.

Il Tom Cruise neo-muscle hero dell'action fantascientifico, condannato all’oblio di memoria (Oblivion) o alla rimozione di un futuro preconizzato da altri ma a lui invisibile (Minority Report), qui riavvolge a ripetizione il tempo bloccandosi in un eterno presente senza domani. Come un Jumper teletrasportato sempre nello stesso punto, in attesa di un'altra prova decisiva dopo quella sfoderata con Jack Reacher (ritrovando Christopher McQuarrie in vesti di sceneggiatore dopo Mission: Impossible - Protocollo fantasma). Il "giorno del giudizio" come immutabile routine addomesticata.


#ViviMuoriRipeti. L’hashtag di promozione sbattuto in locandina e ritwittato da trailer e social network è il fulcro di un dispositivo narrativo a ciclo invariante e ritmo continuo, alla ricerca di un apax risolutivo in mezzo ad ellissi, iterazioni, déjà vu e flashforward depistanti. La progressione accumula i tentativi della mission impossible come una sessione videoludica (elemento già presente nel light novel giapponese di derivazione, All You Need Is Kill). Dove il corpo è già corpse ancor prima di scendere in battaglia, (eso)scheletro di celluloide (“C’è dentro un cadavere in quella tuta” dice di Cage un soldato). E le canoniche partizioni spazio-temporali del war movie, addestramento e campo di battaglia, qui rientrano indistintamente nello stesso ambito della simulazione-tutorial, una palestra digitale. 

Uno sparatutto free roaming in terza persona in cui i giocatori-avatar conservano memoria di mosse ed errori compiuti durante il percorso, sbloccando l’arma del giorno dopo e studiando strategie alternative per raggiungere il checkpoint o la safe zone successiva. Si consumano vite illimitate, salvando i progressi ed eliminando i bug di sistema (la falsa pista approntata dagli alieni). Lo standby non è previsto. Se i danni sono troppi, resettare tutto e ricominciare da capo. 

Cage, intrappolato nella gabbia dell’eterno ritorno, trova il tempo per evadere beffardamente dalla pomposa inflessibilità della retorica militaresca, legata a cliché anacronistici duri a morire (il sergente Farrell di Bill Paxton, che dalla massa di parassiti indifferenziati vorrebbe forgiare un crogiolo di eroi, come una caricatura in baffetti del sergente Hartman). 

Per questo le guerre del futuro assomigliano invariabilmente a quelle del passato. Il secolo breve e il giorno più lungo. Vive, muore e si ripete anche la Storia del Novecento, (conta)minata da riletture aliene. La sanguinaria battaglia di Verdun, monumento di eroismo e resistenza a oltranza, diventa subdola illusione di vittoria e inutile leva di propaganda per reclutare donne-soldato (l’impavida Full Metal Bitch di Emily Blunt). Il nuovo sbarco in Normandia è un’offensiva fallimentare, con i soldati impantanati tra le trincee di sabbia. Per la fine dell’occupazione aliena e la liberazione di Parigi serve uscire dal (corto)circuito videoludico, senza più vite di riserva. Disattivare i bonus, lasciarsi ferire e sanguinare andando incontro a un sacrificio completamente umano. Risvegliarsi finalmente nel domani, per scoprire che è ancora un buon giorno per vivere.