È sempre questione
di come entrare in e come uscire da, nell’universo centrifugo e
maleodorante di Sin City. Il successo
dei personaggi nella città del peccato. L’accesso dello spettatore, partecipe o meno, alle
sue narrazioni frammentate. Si giocano entrambi su incroci e percorribilità di
un’estetica e di una topologia assurte a cult,
fra nuove traiettorie visive disegnate dal 3D nativo e cercati spostamenti di
senso dell’immaginario hard boiled. Nel
costante presente milleriano di tempi, monologhi ed eventi, aggirando gli
incastri cronologici, lo spettatore è gettato nel sequel come scaraventato da una finestra in frantumi. Guidato a (e)seguire
e far propria la pista di Marv: riconosce ciò che vede e sa dove si trova, ma non
ha idea di come sia finito lì, né dove arriverà. È la strada giusta? Forse solo a metà.
Una donna per cui uccidere entra ad
occhi spalancati in un vicolo cieco, che non è l’imbuto stagnante del racconto ma il viale del tramonto della classicità hollywoodiana secondo Frank Miller. Divismo
corrotto e galleria di icone livide e cariche di erotismo come le labbra di Ava
Lord. Stagliate tra ville e palme di una Basin City più tortuosa e collinare. Tatuate di colori e luce fessurata
anni ‘40, incastonate - non intrappolate - fra gli stilemi del noir e i fantasmi redivivi del
predecessore. Riabilitazione aggiornata ai tempi o tardiva revisione post-postmoderna?
Il rischio è quello evocato da una frase di Dwight McCarthy: aggiungere benzina
quando non serve, finendo per girare a vuoto per il gusto di rivivere un
fremito estetizzante probabilmente esaurito nella lunga gestazione produttiva. Di
certo restano a secco le parentesi gambling
di Joseph Gordon-Levitt e il segmento finale, con Jessica Alba che ha le pose
e il magnetismo discinto del sex symbol senza l’aura dark e ossessionata richiesta
a un’autentica lady vendetta.
Arginata l'exploitation del primo capitolo, Miller e Rodriguez puntano massicciamente sul
Green screen. Non gli inflazionati scenari in digitale ma il corpo nudo di Eva,
solenne e voluttuoso, sensualmente scolpito e algidamente retrò, a riempire lo schermo disseminato di mortifere pulsioni
desideranti. Tenendo in piedi da solo il film nell'atmosfera perversa dell’uxoricidio con inganno stile fiamma del peccato (Double
Indemnity, 1944), mentre il maggiordomo adorante pare un’inspessita caricatura
pulp del Max von Mayerling di Sunset Boulevard (1950).
Ma forse è
lecito godersi la superficie del tratto, senza andare più in là. Il fenomeno Sin
City non può né espandersi gonfiato né rinnovarsi ristretto in una narrazione
davvero autonoma, fondato com’è su un (non)luogo cinematografico aperto ad ogni
suggestione cinefila ma formalmente chiuso sotto l’egida del
suo creatore (Frank Miller’s). Nel fumetto è motivo di originalità.
Nella serializzazione cinematografica può rappresentare un limite. Vengono in
mente le parole usate da Gianni Canova per la Gotham City di Tim Burton, ispirata
proprio da Frank Miller: “città mondo”
senza “un’esternità”. “[...] Nessuno va mai via dalla città, quasi nessuno ci entra
arrivando da un altro luogo”. Anche Sin City perlustra nuove strade narrative per tornare invariabilmente al punto di partenza. Si può solo svicolare, restare appartati per riaffacciarsi
al momento giusto. Fare un giro lungo rientrando nel testo da un’altra porta,
magari quella sbagliata. Il piacere di (dis)perdersi non
è certo un peccato.
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