Quel risveglio
di Lucy in camera da letto, sola, sfibrata e guardata a vista da sconosciuti, più che
ripetere la rinascita della ribelle Nikita (1990) fa pensare per un attimo ad Alien (1979) di Ridley Scott. La donna sente una sacca esterna nell’addome quasi riflettendo lo sgomento dell’ufficiale Kane penetrato dalla mostruosa creatura annidata nel petto. Siamo allora dalle parti di un cinema di corpi ibridi e colonizzati che premono per far uscire un discorso sull’umano invaso dalle sovra-stimolazioni del
contemporaneo. Sui limiti e/o le possibilità illimitate del corpo cinematografico
soggetto a potenziamento continuo.
Lucy è certamente fantascienza filosofica slabbrata e parossistica a là Luc Besson, più e forse meglio che ne Il quinto elemento (1997). Ma
è anche un film profondamente metatestuale. Il regista transalpino dimostra maturità
non più limitandosi a flirtare con le icone e giocare con le citazioni, ma,
similmente alla protagonista con la droga innestata negli organi, assume il
cinema come sostanza endogena di cui verificare le deflagrazioni teoriche intestine
dall'interno del cinema di genere. L'accademismo avviluppato nel ventre di un impianto action
estremo (gli inserti in
montaggio parallelo di matrice eizensteiniana a riprendere i contrappunti sul mondo
animale del Nymphomaniac di Lars Von
Trier). Come le ipotesi del professor Norman concretate nell’ultracorpo di Lucy.
Attenzione alle parole chiave della sua ricerca. “Immortalità” e “Riproduzione”
come varianti di adattamento all’ambiente. Non sono anche le
modalità di diffusione del cinema? Pratica di morte al lavoro che consegna
flussi di vita all'eternità, ripristinati ogni volta nell’atto e nell’attimo della riproduzione. Termini
antitetici per la scienza, inestricabili e ricuciti nel processo-cinema. Suturati nel corpo
mutante di Scarlett Johansson, dispositivo attoriale aperto, come il cinema,
alla multi-connessione affettiva e smaterializzata (Lei di Spike Jonze) come all’incubazione di raggelate presenze
aliene (Under the Skin di Jonathan
Glazer).
In epoca di eccesso visivo e metastasi
digitale, lo spettatore osserva insieme a Lucy l’immagine dell’auto che segue
lo stesso percorso a velocità sempre maggiori, fino a scomparire dallo schermo,
presente ma non più visibile dall’occhio umano. Contro ogni raziocinio matematico,
l’unità di misura della vita si scopre quella del cinema stesso: il tempo e il
suo controllo, le illusioni ottiche e percettive indotte. Contrazione e
dilatazione. Lucy manipola la materia del mondo come il regista dispone il cut sul girato, maneggiando lo scorrimento. Accelerazione o ralenty. Avanti veloce nell’universo o
il rewind della civiltà. Registrazione completa e frame stop, fino al brusco
jump cut che dal laboratorio ci spara
all’indietro tra dinosauri e pellerossa restando seduti su una seggiola
da Pc.
L’omaggio a 2001: Odissea nello
spazio (1968) non si risolve negli ovvi rimandi allo scimpanzé nella pozza o
alla scoperta del fuoco, ma trova il fulcro in Lucy come
corpo-involucro capace di saldare un salto evolutivo abissale paragonabile a quello del celeberrimo osso-astronave. Costituendone forse la tappa
successiva. Se però il superuomo kubrickiano sfociava nel tunnel
dell’immateriale e dell’atemporale, con il feto dello Star Child stagliato su una costellazione eterea già oltreumana,
l’eroina ultraumana di Besson non è una Lucy
che varca i limiti ascendendo in the
sky. Ma figura sacrificale tutta terrena che assorbe il mondo per
restituircene la complessa materialità primigenia, arcaico crogiolo di
potenzialità ancora inespresse con cui fare i conti, qui e ora, nel traffico eccitato e stordente dell’attualità. Quanto
è distante il 100%? È una sfida all’implementazione di corpi ed energie
di cui è innanzitutto il cinema a doversi fare carico.
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