sabato 4 ottobre 2014

Immortalità e riproduzione



Quel risveglio di Lucy in camera da letto, sola, sfibrata e guardata a vista da sconosciuti, più che ripetere la rinascita della ribelle Nikita (1990) fa pensare per un attimo ad Alien (1979) di Ridley Scott. La donna sente una sacca esterna nell’addome quasi riflettendo lo sgomento dell’ufficiale Kane penetrato dalla mostruosa creatura annidata nel petto. Siamo allora dalle parti di un cinema di corpi ibridi e colonizzati che premono per far uscire un discorso sull’umano invaso dalle sovra-stimolazioni del contemporaneo. Sui limiti e/o le possibilità illimitate del corpo cinematografico soggetto a potenziamento continuo.     

Lucy è certamente fantascienza filosofica slabbrata e parossistica a là Luc Besson, più e forse meglio che ne Il quinto elemento (1997). Ma è anche un film profondamente metatestuale. Il regista transalpino dimostra maturità non più limitandosi a flirtare con le icone e giocare con le citazioni, ma, similmente alla protagonista con la droga innestata negli organi, assume il cinema come sostanza endogena di cui verificare le deflagrazioni teoriche intestine dall'interno del cinema di genere. L'accademismo avviluppato nel ventre di un impianto action estremo (gli inserti in montaggio parallelo di matrice eizensteiniana a riprendere i contrappunti sul mondo animale del Nymphomaniac di Lars Von Trier). Come le ipotesi del professor Norman concretate nell’ultracorpo di Lucy. Attenzione alle parole chiave della sua ricerca. “Immortalità” e “Riproduzione” come varianti di adattamento all’ambiente. Non sono anche le modalità di diffusione del cinema? Pratica di morte al lavoro che consegna flussi di vita all'eternità, ripristinati ogni volta nell’atto e nell’attimo della riproduzione. Termini antitetici per la scienza, inestricabili e ricuciti nel processo-cinema. Suturati nel corpo mutante di Scarlett Johansson, dispositivo attoriale aperto, come il cinema, alla multi-connessione affettiva e smaterializzata (Lei di Spike Jonze) come all’incubazione di raggelate presenze aliene (Under the Skin di Jonathan Glazer).

In epoca di eccesso visivo e metastasi digitale, lo spettatore osserva insieme a Lucy l’immagine dell’auto che segue lo stesso percorso a velocità sempre maggiori, fino a scomparire dallo schermo, presente ma non più visibile dall’occhio umano. Contro ogni raziocinio matematico, l’unità di misura della vita si scopre quella del cinema stesso: il tempo e il suo controllo, le illusioni ottiche e percettive indotte. Contrazione e dilatazione. Lucy manipola la materia del mondo come il regista dispone il cut sul girato, maneggiando lo scorrimento. Accelerazione o ralenty. Avanti veloce nell’universo o il rewind della civiltà. Registrazione completa e frame stop, fino al brusco jump cut che dal laboratorio ci spara all’indietro tra dinosauri e pellerossa restando seduti su una seggiola da Pc. 

L’omaggio a 2001: Odissea nello spazio (1968) non si risolve negli ovvi rimandi allo scimpanzé nella pozza o alla scoperta del fuoco, ma trova il fulcro in Lucy come corpo-involucro capace di saldare un salto evolutivo abissale paragonabile a quello del celeberrimo osso-astronave. Costituendone forse la tappa successiva. Se però il superuomo kubrickiano sfociava nel tunnel dell’immateriale e dell’atemporale, con il feto dello Star Child stagliato su una costellazione eterea già oltreumana, l’eroina ultraumana di Besson non è una Lucy che varca i limiti ascendendo in the sky. Ma figura sacrificale tutta terrena che assorbe il mondo per restituircene la complessa materialità primigenia, arcaico crogiolo di potenzialità ancora inespresse con cui fare i conti, qui e ora, nel traffico eccitato e stordente dell’attualità. Quanto è distante il 100%? È una sfida all’implementazione di corpi ed energie di cui è innanzitutto il cinema a doversi fare carico.    

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