Il labirinto non al centro di perdizioni di senso e ambiguità della visione, ma dispositivo prigioniero
dell’affannosa rincorsa al testo d’origine (il bestseller per ragazzi di James Dashner) e al pretesto narrativo di
partenza (la fuga). La solitudine dei Velocisti è la condanna di Maze Runner – Il labirinto all’inseguimento
di piste già battute. (Co)azioni
di gruppo a ripetere schemi e tipologie dell’universo teen fantasy. La temporalità circolare,
la struttura a prove/livelli, la sindrome dell'accerchiamento post-apocalittico immersa
in un anti-Eden di prescelti paiono usciti da un distretto minore degli Hunger Games.
L'intreccio blando e collaudauto è mappatura intricata
ma in fondo lineare di un modello produttivo a scatola chiusa. Attivo a orologeria come la
gabbia-ascensore da cui sbucano i personaggi. Appena dirottato con flash(back) alla Lost e dosato a compartimenti (stagni?) di figure dell’immaginario e
funzioni narrative sulla scia di Quella casa
nel bosco (2012). Munito di entrate (Teresa) e uscite (Alby) calibrate, ostacoli
piazzati meccanicamente (i mostruosi Dolenti), resti di memoria disseminati agli
angoli e rivelazioni sbloccate al momento giusto. Con le scelte azzeccate di
non cadere (per il momento) nel sentimentalismo ricattatorio e di lasciare più di una porta aperta ai sequel.
Nell’ostinato Gally, conservatore ottuso che cede alla superstizione nell’impalamento
sacrificale del nemico, c’è l'eco del guerriero Jack de Il signore delle mosche. Ma il pessimismo di Golding resta
lontano, se a trionfare è l’indiscusso razionalismo
decisionale di Thomas. Abbondano le citazioni, dai risvegli in oblio di The Cube (1997) e Total Recall (2012) alle pandemie virali di
Cronenberg, con il suicidio in video di Ava Paige, scandito da evocative parole
testamentarie («WICKED è buono»), che rimanda a quello di Videodrome (1983). I coloni della Radura come
inconsapevole “nuova carne” da laboratorio, antidoto evoluto per malattie cerebrali e
defezioni sociali.
Spunti riflessivi fin troppo marcati visto il target di giovanissimi, fandom affamato di avventure
evasive e mitologie friendly senza troppo interesse a rinvangare strati profondi di memoria cinematografica. Chiedendo, al pari dei personaggi, null’altro che un
empatico meccanismo di identificazione e un punto di fuga suggestivo dalle manipolazioni degli adulti. Percorsi a brevi distanze che la distopia di Wes Ball è senz’altro in grado
di assicurare.
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