Ridotto
all’osso, anzi, al guscio, il plot delle
Tartarughe Ninja è la storia di una
mutazione. Dei suoi effetti nel tempo, delle scorie sotterranee lasciate nel contesto
urbano, mediale e cinematografico. Origine talmente arcinota da essere relegata nel
didascalico prologo-sunto in stile bozzetto fumettoso. Poco interessante, se
non involontariamente ridicola, anche quando richiamata nel flashback sulla crescita e
l’addestramento dei quattro rettili mutanti (un bignami d’arti marziali ammuffito
scovato nelle fogne dall’autodidatta Splinter e il gioco è fatto). Eppure, tematizzare
ancora la mutazione e rifletterne sul processo (accidentale o meno?) vale almeno
a rintracciare un discorso sulla trasformazione del blockbuster nel transito da una generazione all’altra, nella
dialettica produttori-target spettatoriale. Cosa ci dice Tartarughe Ninja di Jonathan Liebesman e Michael Bay in proposito? Che
tutto muta profondamente senza in fondo mutare affatto, e a entrambe le parti,
autori e consumatori, va bene così.
Facciamo un parallelo con il film del 1990,
Tartarughe Ninja alla riscossa di
Steve Barron (Teenage Mutant Ninja
Turtles), dimenticato cult adolescenziale
dell’epoca e prima sortita in live action
dei guerrieri in bandana. Nel passaggio dal B-movie sbalestrato e indipendente
ai grossi budget dell’intrattenimento di massa, dagli animatronics rivestiti da
Jim Henson (il padre dei Muppets) alle tute per la resa in motion capture, il brand Tartarughe Ninja conserva il suo carattere
di universo derivativo, il ruolo di alleggerimento parodico e scrematura ironica
dell’immaginario dei filmoni coevi o che appena lo precedono. Le nuove
tartarughe arrivano per ultime, dopo tutti i paladini degli anni 2000
(ri)proposti sullo schermo, in fase di piena metabolizzazione dell’ondata di
supereroi in digitale, similmente a quanto il film del ‘90 giungeva al culmine
degli anni ’80 centrifugandone il melting
pot di giustizieri muscolari (Rambo e Terminator citati nelle battute dei
Ninja, l’imitazione di Rocky offerta da Michelangelo), e traviandone i racconti
di formazione a base arti marziali allora in voga (The Karate Kid, 1984), con le baby-gang di ninja agli ordini di Shredder.
Il nuovo Michelangelo può dunque fare il verso alla voce arrocchita del Batman
di Nolan, ma sono i personaggi tutti a recare in sé qualcosa preso ad altri, a
partire dall’April O’Neil di Megan Fox. Un Sam Witwicki di Transformers (2007) al femminile, la fuga dal quotidiano a contatto
con materia extra-ordinaria e avventure bigger
than life. Un po’ Lois Lane a caccia di un presunto Superman solitario e un
po’ Peter Parker fotografo, con i “mostri” invisibili che una Whoopi Goldberg
in versione J.J. Jameson non sa se sbattere o meno in prima pagina. Più che a
Raimi si guarda piuttosto al primo The
Amazing Spiderman (2012) di Marc Webb,
con William Fichtner dalla scuderia Bay per un cattivo a due dimensioni che
ricalca la storyline di Curt Connors
(gli esperimenti coi mutageni in laboratorio, lo scienziato partner oscuro del
padre dell’orfano/a protagonista, impegnato/a a decifrare segni di un passato
ambiguo). Shredder, privato della mistica da samurai, è un main villain tutto metallo e lame che cingola e rimbomba
come un Transformer. Alimentando il sospetto sull’operazione come continuo inseguimento
del mero, assordante rumore di fondo. Rifinitissimo trash di lusso che fa rimpiangere quello ingenuamente genuino di
Steve Barron, dove Shredder non a caso finiva letteralmente nella spazzatura.
Narrativamente
piatto ma instancabilmente caotico, Tartarughe
Ninja dice tutto e nulla di nuovo ai teenager di oggi (mutanti anche
loro?), sedotti come ieri dai trend imposti
dalle subculture popolari (lo spiega Splinter). Ai ritmi sincopati dell’hip-hop, dalla ninja-dance di Vanilla
Ice (Go Ninja, Go Ninja Go!) che in Tennage Mutant Ninja Turtles 2 (1991) impazzava
in pista nello scontro tra freaks, fino
alle tartarughe di oggi, che sospendono l’azione rappando in ascensore. Per poi
piazzare la sfera specchiata sul tettuccio della ninja-car (che vedremo nel sequel già in cantiere). Accessoriata
con tanto di Dolby Digital 7.1., per il gasamento di Michelangelo. Se l’andamento
è soporifero e tutto sa di già visto, per chi s’accontenta, il volume del blockbuster mai come ora è pompato ai
massimi livelli. Cowabunga!
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